Le città invisibili
di Italo Calvino
Milano, Mondadori, 1972
“Un poema d’amore alle città”: così Calvino definisce il suo romanzo e, non a caso, ogni città assume il nome (e con esso il volto) di una donna, il suo calore accogliente, la sua morbida e sinuosa sensualità, il mistero di una figura appena sbozzata… così sono descritte Ipazia, Dorotea, Despina, Isidora, le città che non sono più, quelle che non sono ancora e quelle che, come Utopia o Atlantide, non saranno mai per il semplice fatto che l’inconsistenza è la loro calce.
La trama è frammentata, quasi un mosaico che si compone nella mente dell’avventuriero Marco Polo, mercante in realtà poco attento alla ragion di stato e più avvinto dall’ onirismo, dalle mille possibili strade che la città offre come percorsi alternativi, e dai molti “futuri non realizzati” che essa permette di sognare facendoci nostalgicamente volgere indietro per capire “il poco che abbiamo avuto” dal “molto che non avremo mai”…
Far propria la logica di una città non equivale a fare i turisti: si entra in contatto con un mondo “altro” di cui si rischia di non trovare più la via d’uscita, perduti come novelli Tesei in cerca del filo d’Arianna…
Ci si ferma ad osservare un bambino, un uomo, un vecchio ed ecco che, come direbbe Lynch, la città cambia le sue forme, i suoi colori, i suoi fini a seconda di chi la percepisce sviluppandone l’immagine in ogni suo angolo, via o incrocio mentre la clessidra lascia scivolare i suoi grani fini come cipria.
“Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”, ognuna rappresenta un “check point”, uno scalo in cui sostare prima di giungere a quella meta che Kublai Khan, da sovrano e saggio orientale, sa coincidere con il punto di partenza poiché ogni percorso compiuto si dipana circolarmente… per questo la meta di Polo non può che essere Venezia.
Così davanti alla “Serenissima”, quasi una nuova agognata Itaca, le altre città divengono invisibili.
Forse lo sono davvero. Forse sono solo un’invenzione di Polo davanti alla volontà espansionistica, ai capricci del Khan… o forse sono allucinazioni dovute all’oppio ed alle lunghe pipe fumate sui balconi di un palazzo di “un impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie” e si scopre essere “uno sfacelo senza né fine né forma” poiché “solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Khan riusciva a discernere, attraverso le torri e le muraglie destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”.
Esposto Ultimo Eva Maria
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