Il libro dell'inquietudine di Bernardo Soares
di Fernando Pessoa
prefazione di Antonio Tabucchi
Feltrinelli, 2003
pp. 286
Avventurarsi nella metafisica del quotidiano comporta sempre un inquietante rischio di onestà. E l'onestà, lo sappiamo, raramente ci appare multicolore o altisonante. Somiglia invece, per lo più, all’indecifrabile movimento dell’esistenza, fatto di silenzi assordanti, talvolta prolungati, messi lì, tra una nota significativa e una stonata.
E’ difficile arrendersi all’imperfezione dello stare al mondo, soprattutto se ci si sobbarca la responsabilità di farlo da poeti. E' un po’ come combattere disarmati.
Chiunque, tra i lettori di questo blog, non si fosse ancora del tutto rassegnato all’epilogo delle vacanze estive e sentisse di aver reciso troppo prematuramente il legame simbiotico con la sedia a sdraio, non mi maledica in cuor suo per il presente invito a leggere e/o rileggere Il libro dell’inquietudine di Bernardo Soares di Fernando Pessoa.
L’unica precauzione da adottare è quella di una discreta mise en abîme, a tutela del nostro sacro subconscio.
Se il protagonista avesse un intento programmatico esplicito, questo consisterebbe nel condurci in viaggio attraverso la monotonia del quotidiano. Bernardo Soares non si sposta mai dai soliti luoghi.
Qui staticità e ripetizione regnano sovrane, contrapposte però al dinamismo di uno spirito inquieto che perde le sue coordinate spazio-temporali cammin facendo. Si trasforma così, sotto gli occhi del lettore, in eroe eponimo di un’umanità consapevole ma rassegnata.
Lo scrittore diventa la voce dell’umanità stessa.
Vale la pena lasciarsi intrattenere dalla prosa di Pessoa, anche solo per il gusto fanciullesco di stupirsi davanti a un giocoliere della parola.
Una prosa in cui all’analisi fenomenologica della monotonia fa da contrappunto l’inventiva dello stile, ricco di metafore, paradossi, ironia, simbologie.
Riconosciamo tutti gli ingredienti di un romanzo perfettamente incastonato nella storia del romanzo europeo moderno.
Si aggiunga a ciò il potere ipnotico della parola, fatto di ritmi e di suoni, evocativo di immagini scappate, quasi per ribellione o per contrasto, dalla statica inespressività delle cose di ogni giorno.
Questo genio generoso, Pessoa-Soares, rinnoverà sempre, ad ogni lettura, il sortilegio affabulatorio, tanto caro a noi umanisti. Quasi volesse accedere di soppiatto al serbatoio delle emozioni, inibendo, più che eludendo, la vigilanza del nostro raziocinio.
La speculazione filosofica, alla luce di quanto detto, diventerà allora un orpello stilistico, un artificio narrativo che non pretende di essere probante, né di costruire sistemi (questa è la grandezza del romanzo), ci interroga e ci provoca fino a indurci ad accettare il paradosso come un evento naturale.
Dopo questo esercizio di fitness aristotelico postvacanziero, potremmo persino, nell’ebbrezza redentrice della catarsi, riscoprirci discepoli della vita. Banale, come rileggere le pagelle della scuola primaria, dove quasi tutti, incluso Bernardo Soares, eravamo degli anti-Soares, ossia dei vattelappesca più impegnati ad agire che a elucubrare e sempre comunque meritevoli, a detta dell’educatore di turno, di essere gratificati per l’impegno costantemente profuso.
I risultati, poi, sono un’altra faccenda. Niente di definitivo: c’est la vie.
Lvxita
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