di Viola Di Grado
Edizioni e/o, 2011
Prova di esordio della ventitreenne catanese, Viola di Grado, Settanta acrilico trenta lana, è un romanzo che ha, per certi aspetti, carattere autobiografico ma non è interamente classificabile come tale. Un romanzo sui giovani che non vuole essere generazionale ma si concentra sull’esperienza emotiva della protagonista e della madre raccontando un dramma meramente esistenziale.
Quello che Viola di Grado propone è un romanzo sul dolore, sulla solitudine, sulla metabolizzazione dei lutti che creano un cortocircuito nella vita di chi resta, solo. Leeds, un presente “fuori dal tempo”. Per la protagonista, l’italiana Camelia, il tempo si è fermato al 12 dicembre 2004, giorno in cui il padre giornalista è morto cadendo con la macchina dentro un fosso insieme all’amante inglese. Da quel momento la ragazza e la madre non sono più riuscite a condurre una vita “normale”. Vivono in una casa vicino a un cimitero abbandonato, in uno squallido quartiere di periferia, pieno di delinquenza, in una via che la protagonista definisce “così brutta da essere una prova che Dio non esiste”. La loro casa è ormai umida, sporca, piena di polvere e intrisa di odori marci. A Leeds sembra che l’inverno non passi mai, il gelo, il vento tagliente e la neve si abbattono senza tregua sulle strade e sulle orribili case di mattoni rosse tutte uguali. Sembra non esserci mai stata stagione diversa da quell’eterno inverno. Camelia ha una passione per i fiori che ama recidere senza pietà (“con orgoglio necrofilo”) ogni qualvolta li trovi sulla sua strada, perché ossessionata dalla loro bellezza che sembra farle torto e provocarla, tanto è brutta la sua vita. Indossa vestiti che altri hanno buttato nei cassonetti della spazzatura ma taglia anche quelli, in preda a raptus violenti, li sfigura e li straccia in modo da farne creature nuove, ricucendoli nel modo più stravagante possibile. La madre, bella e talentuosa suonatrice di flauto, dopo la morte del marito si è ridotta alla condizione di vegetale: non sa più prendersi cura di sé stessa, del suo corpo, non suona più; riesce solo a scattare bizzarre foto a tutti i buchi che trova in casa perché ne è ossessionata. Si è chiusa in un silenzio inviolabile e comunica con la figlia solo con gli sguardi, quasi a punirla ogni volta che lei intenda o desideri parlare. Bandendo la parola dalla propria vita, ha chiuso fuori dalla porta di casa il mondo e la luce. Combattuta tra la volontà di salvare la madre e se stessa e la voglia di autodistruggersi, Camelia finisce per chiudersi nel circuito di un’esistenza di ossessioni e malattia. Fugge dalle storie perchè le sembra le raccontino qualcosa che lei vuole a tutti i costi dimenticare.
L’incontro con Wen, giovane che inizia a darle delle lezioni di cinese, la porta a rinascere. Parallelamente all’apprendimento della lingua, Camelia riprende a vivere. Il cinese diventa la chiave di riscoperta della realtà, gli ideogrammi cominciano a popolare in maniera ossessiva la sua esistenza, facendola diventare quasi preda di una “indigestione di parole”.
Il giovane, al pari di lei, ha qualcosa di irrisolto: timido e schivo, nasconde nel retrobottega uno strano fratello che taglia e rovina i vestiti del negozio e nel suo passato c’è un’altra misteriosa studentessa di cinese. Dalla rinascita al ritorno alla condizione iniziale il passo è breve: il romanzo si chiude con il ritorno allo stato esistenziale ed emotivo di partenza, ma stavolta è la madre che ha ritrovato la parola ed è Camelia che le risponde con uno sguardo che sancisce la fine di ogni speranza. Settanta acrilico trenta lana è costruito più che sulla trama, sullo sfruttamento delle potenzialità del linguaggio. Il vocabolario, le parole, diventano per l’autrice materiale da comporre, organizzare, nominare voluttuosamente o falcidiare violentemente, come fa Camelia con i fiori. Le parti più riuscite sono quelle in cui Viola di Grado riesce a rendere il paesaggio attorno alla protagonista un riflesso della sua condizione interiore: la Leeds dimenticata dal mondo, brutta e sporca è l’emblema di una condizione di vita desolata e priva di sbocco. Nel complesso la scrittura, che a tratti appare lirica, costruita com’è sulle metafore, sulle similitudini, sulle analogie, risulta godibilissima e ne deriva una lettura scorrevole che cattura il lettore nella maglia dei vocaboli universali, come Camelia è imprigionata dalla magia dei suoi ideogrammi.
Il romanzo può essere apprezzato da tutti coloro che amano i testi dal gusto un po’ dark, dal sapore emotivo spiccato, dai giovani che si potrebbero riconoscere nel dolore di Camelia e di Wen. È un romanzo contemporaneo, ma allo stesso tempo è ambientato in un eterno presente, estraneo alle convenzionali misurazioni temporali, scandito solo dal dolore e dalla solitudine della protagonista. Nonostante racconti di una storia “controcorrente”, trasgressiva, che vuole scuotere le coscienze del lettore borghese e a cui mancano tutti i tradizionali ingredienti del romanzo di consumo quali la storia d’amore, il lieto fine, il superamento della condizione esistenziale, esso ha un pubblico potenzialmente vasto, proprio in virtù della qualità e dello sperimentalismo di una scrittura che, indipendentemente dai propri gusti, è sicuramente fuori dal comune.
Claudia Consoli
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