Andrea Italiano
Giuliano Ladofi Editore, Novara 2011
pp. 74
€ 12
L’esordio di Andrea Italiano è singolare se confrontato alle esperienze di poeti più o meno coetanei (mi riferisco alla generazione nata a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta) e già piuttosto affermati. Se questi ultimi spesso oscillano tra un narrativismo autobiografico attento al reale, e spinte astratte o immaginifiche, Andrea si pone dall’inizio, e con naturalezza, nel solco di una narrazione corale: per intenderci, in quel genere epico che negli ultimi secoli è stato in qualche modo sostituito o riassorbito dal romanzo.
Non è quindi un caso che i suoi modelli, o meglio i suoi predecessori, vadano cercati nell’ambito della narrativa (nella prefazione Giulio Greco cita, a ragione, i Malavoglia del conterraneo Verga), piuttosto che in quelli della nostra – a volte paralizzante – tradizione poetica.
La prima conseguenza è psicologica, ancora prima che stilistica: se è vero che manca un fitto dialogo – che è sempre anzitutto formale – con i poeti del novecento, è altrettanto vero che viene saltata a piè pari quella che Harold Bloom chiama l’angoscia dell’influenza, così come tutta l’arcinota (per gli addetti ai lavori) vicenda dell’io poetico. Andrea nasce cioè al riparo dai rischi autistici e dai vezzi narcisistici che corre la maggior parte dei poeti – riflesso della mancanza di riferimenti e dell’aver perso i ponti con la Storia, nel sincronismo della condizione postmoderna.
Qui invece non c’è individualità intesa nel senso di separatezza, in quanto il poeta si riconosce totalmente nella comunità dei quaddarioti, gli abitanti della sua Calderà (in provincia di Messina), ricostruendo con grande empatia la drammatica emergenza alimentare che vissero come “effetto collaterale” della seconda guerra mondiale.
Questo è il perno del poemetto eponimo Guerra alla tonnara, che costituisce la prima, e più ampia, sezione del libro. Se il suo stile è scarno – a tratti persino diluito, non esente da cadute espressive, in parte insite nella stessa scelta dell’epica, che privilegia l’esposizione all’ornatus – la sua architettura è rigorosamente concepita. Infatti, dopo una “notizia” in prosa e una poesia introduttiva, viene ripetuto sei volte questo schema: 1. testo breve in prosa, di carattere storico-didascalico; 2. serie di testi narrativi in versi, da un minimo di tre a un massimo di cinque sezioni; 3. testo corsivato in versi, di carattere più riflessivo e riassuntivo (alcuni dei quali, a mio parere, tra gli esiti più alti del libro). La progressione è cronologica, e va dal 10 giugno 1940 al 5 maggio 1945: gli estremi della partecipazione dell’Italia alla guerra, e della fine della stessa.
Andrea intreccia abilmente, proprio come le reti delle tonnare, caccia al tonno e guerra dell’uomo: dopotutto, la prima è già di per sé una vera e propria guerra, sia per la mattanza (si veda il bel testo in limine, a tal proposito) sia per le strategie utilizzate per la cattura dei tonni (in un altro testo si legge che «la pesca al tonno / fu inventata da Adamo o da Dio in persona / tanto è perfetta, razionale matematica. / Se uno ci pensa gli viene da impazzire»); la seconda invece, assai meno nobile e più barbara, ha messo fine alla prima, privando la comunità della sua principale fonte di sostentamento, nonché d’identità.
L’assumere così totalmente il punto di vista dei quaddarioti porta a un revisionismo della liberazione degli alleati in Sicilia, e a un pessimismo che non risparmia vincitori né vinti («Quei figli di puttana dei liberatori / (ma chi non deve in qualche modo ringraziarli? / ti potevano sorprendere ovunque, / persino al cesso persino al centro città / con le buste della spesa in mano»; ma si veda anche l’affondo sui tedeschi che, paragonati ai turchi e ai marocchini «picchiavano, strillavano come i senzadio, / si dedicavano di continuo alle rapine per fame»).
Questa posizione può sorprendere in tempi dalla facciata politically correct come i nostri, ma interpretarla in senso ideologico sarebbe fuorviante: si tratta infatti di un sentimento viscerale, esasperato dalla fame e dalla rabbia, di cui il poeta si fa portavoce, ritraendo personaggi locali o accostandovisi, come Franciscu Monucu (Francesco Stagno), guardiano di garitta delle tonnare e padre di Marina Stagno, nonna dell’autore e sguardo privilegiato attraverso cui rivivere gli eventi. La stessa univocità non va dunque giudicata come insufficienza nel creare una poetica e perfino un “discorso sul mondo”, ma va spiegata nei limiti autoimposti della sparizione del poeta nei protagonisti dei suoi testi; comune all’uno e agli altri resta, comunque, l’acceso, risentito pessimismo storico ed esistenziale: il quale diviene evidente quando l’autore passa, nelle due sezioni successive, dalla narrazione del passato ai magri bilanci del presente, dall’epica alla lirica; dove insomma è lui il centro conoscitivo, sia pur sempre diretto a ciò che lo circonda.
Qui lo stile si fa più sentenzioso, più sorvegliato, restando costantemente all’insegna della chiarezza e dell’immediatezza. In entrambe le sezioni (complementari già dai titoli: «Nel deserto» e «Una pianta rara», emblemi del vuoto contemporaneo e di una possibilità sia pur fioca di riscatto), c’è un uso scoperto dell’allegoria, come in «Il mondo, la crepa» e l’importante «Allegoria di un restauro».
Se escludiamo l’apertura alla speranza dell’ultima lirica, «Una pianta rara», eponima dell’ultima sezione («sui brandelli sparsi di una civiltà senza testa / è ritornata l’erba / i fiori gialli e viola del rimedio») il pessimismo è davvero insistito. Pochi accenni: «sulla strada ho sentito uomini e cose / soffrire disperatamente: / il nostro è lamento di uno solo»; «E chi più sente soffre, / chi più scende nel profondo / peggio è per lui». Addirittura, viene rovesciato il simbolo positivo di un pessimista come Leopardi nella poesia eloquentemente intitolata «La ginestra» (fortissimo l’incipit: «con un mazzo di ginestre fare un cappio»); tuttavia, come per contrappasso, alla solitudine del recanatese si oppone la partecipazione del poeta, come nella bella «Pioggia di giugno», che sembra rovesciare la situazione de «Il passero solitario».
Altre volte il rilievo negativo rimane un po’ in superficie, sui generis, limitato dalla fretta di essere detto («Ci trovi l’origine di un mondo (il nostro) / nato cattivo e bugiardo»), oppure persiste una connotazione perentoria e idealizzata, sia pure al negativo, della figura del poeta («Perché un poeta non è mai felice / Un poeta non è mai solo»): indici di una ingenuità che qua e là fa capolino in quello che ritengo comunque un esordio consapevole, sopra la media e, soprattutto, dalle grandi potenzialità future.
Queste ultime si intravedono nella corposa sostanza di base, che avrebbe forse bisogno di essere maggiormente “problematizzata” e sfumata in una visione più articolata, meno manichea, magari limando anche il verso – la cui tenuta ritmica è già notevole – per alzarne la temperatura espressiva, certo senza tradire uno dei pilastri e dei punti di forza di questa giovane poesia: l’imperativo della comunicabilità a pieno raggio delle proprie convinzioni e della propria e altrui esperienza.
Davide Castiglione
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