Plastica
di J. G. Herder
Aesthetica, 1994
a cura di G. Maragliano
€ 20
Con questo piccolo testo, pubblicato nel 1778, l’estetica muta radicalmente la sua dimensione: da semplice “ancella” della logica, ovvero da strumento per il pensiero, così come fu identificata da Baumgarten, inizia ad assumere la veste di scienza in quanto tale. Herder, in un certo modo, continuando tuttavia le intenzioni baumgartiane (affiancare, all’intelletto, la sensibilità), libera lo studio filosofico dell’arte da una condizione di «sudditanza» (Pag. 7). Più che occuparsi di principi “puri”, il filosofo tedesco sposta la direzione della ricerca verso gli elementi più naturali del corpo, come il cuore, i muscoli, ecc., fino al più oscuro e basilare dei sensi: il tatto. Il tatto è ripensato non in analogia alla logica, ma nella concretezza del corpo umano e in relazione al mondo dell’arte. Tale mondo, a cui Herder specificatamente si riferisce, è la statuaria greca, sintesi di una perfezione indiscutibile, verso la quale Winckelmann, citato più volte nel testo, appare come il più grande teorico.
«Winckelmann ha ragione a dire che deve esser stato una bestia quello spagnolo che a Roma, alla vista di quella statua di una virtù che ora è coperta da un manto, provò lussuria; le pure e belle forme di quest’arte possono infatti indurre amicizia, amore, quotidiana conversazione, ma solo in una bestia inducono lussuria». (Pag. 45).
Ritorniamo al tatto. Le constatazioni di Herder partono da una comparazione tra il senso tattile, la vista e l’udito. Mentre la prima ci offre una conoscenza profonda dell’oggetto contemplato, le ultime due, nonostante in estetica siano state largamente trattate, ci mostrano soltanto delle nozioni non vicine alla conoscenza reale (si pensi a un asta immersa in un secchio colmo di acqua, o un suono proveniente da lontano), e che anzi potrebbero addirittura sviare la contemplazione. Chiarito questo punto fondamentale, Herder passa al “lavoro” proprio del senso tattile: la percezione della scultura. La scultura è trattata nel suo complesso, ovvero esponendo sia ciò che le è proprio (le vesti umide lo sono, il colore o altri materiali non lo sono, per esempio), sia le modalità di fruizione di una figura scultorea.
«Crediamo di vedere dove dovremmo solo sentire e sentire tattilmente; infine vediamo tanto e così velocemente da non sentire più nulla, e da non essere più in grado di farlo, laddove invece questo senso dovrebbe sempre essere il fondamento e il garante dell’altro. In tutti questi casi la vista è solo una formula abbreviata del tatto». (Pag. 33).
La vista è sogno, il tatto è verità, sostiene Herder. E il tatto è necessità, si potrebbe aggiungere, mera necessità di noi umani. Probabilmente è per questo motivo che gli esercizi commerciali, accanto alla merce, devono tenere esposto il cartello “Non toccare”; probabilmente è per questo motivo che ci risulta spesso impossibile, guardando gli occhi di chi ci sta di fronte o ascoltando belle parole, non dare una carezza.
Dario Orphée
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