La fiera delle vanità. Romanzo senza eroe
di William M. Thackeray
BUR, 2007
pp. 874
Traduzione di B. Tasso
1^ edizione: 1846-'48
Nella nebbia londinese, nella brughiera malinconica e nella
campagna inglese, si annida quasi certamente il segreto del talento letterario:
un’ispirazione magica, la capacità di osservare con occhio critico la società e
le sue manie, gli uomini i cui sentimenti e passioni non sono in fondo cambiati
poi tanto nel corso del tempo, la bramosia di potere, la sete di ricchezze e successo.
Un talento che certo non è solo prerogativa inglese, ma che almeno nel periodo
vittoriano è quanto mai evidente e dominante.
Tra gli interpreti dell’epoca che hanno saputo regalarci
pagine indimenticabili per la loro forza espressiva, analisi attenta,
linguaggio forbito, un posto d’onore spetta sicuramente a William M. Thackeray,
autore di un capolavoro quale “Vanity Fair” (oltre che ovviamente di numerose
altre opere di valore, tra cui basti citare “”Barry Lyndon”). Ma è bene
avvertire il lettore che pur trovando posto tra gli scaffali riservati ai
classici della letteratura, tale libro è per molti aspetti quanto di più
lontano si possa immaginare dal romanzo per antonomasia, quello inglese del
periodo vittoriano per l’appunto.
Eccezion fatta per la scrittura scorrevole, limpida ed
elegante che caratterizza i romanzieri anglosassoni, la costruzione della
storia e soprattutto i suoi personaggi si discostano nettamente dai canoni
classici della letteratura sopracitata. Come lo stesso autore non manca di
puntualizzare infatti, “Vanity Fair” è un “romanzo
senza eroe” almeno sul modello dell’eroe che tutti siamo abituati a
riconoscere, campione di virtù e saggezza. I personaggi che vengono
perfettamente ritratti non hanno infatti nulla dell’eroe, essi non sono altro
che uomini –certo non della miglior specie- le cui passioni, vizi ed egoismi
hanno il sopravvento su ogni buonismo. Non c’è spazio per il pentimento e la
redenzione, la fine può solo portare alla soddisfazione dei propri desideri o
alla sconfitta, nessun moralismo o proposito edificante si cela dietro ascesa e
caduta nella società aristocratica inglese. Quello che fa Thackeray è
“semplicemente” restituirci uno spaccato di quella stessa società entro la
quale ha vissuto, snob e arrivista, dell’Inghilterra coloniale.
Tuttavia, nonostante sia impossibile trovare nel romanzo un
personaggio che corrisponda ai canoni noti dell’eroe, è anche vero che –almeno
dal mio personale punto di vista- è altrettanto inevitabile non rimanere
completamente stregati dalla sua protagonista, Becky Sharp: affascinante,
maliarda, astuta e cinica arrivista, talmente ostinata nel perseguire il suo
intento che non può che essere ammirata almeno per la sua perseveranza e faccia
tosta (e forse in buona misura resaci ancor più cara se la immaginiamo con i
tratti di Reese Witherspoon a cui ha prestato il volto nella trasposizione
cinematografica del romanzo). Decisa a riscattarsi dalla umile condizione
sociale di partenza, non si lascia intralciare da niente e da nessuno nella sua
scalata alla società inglese, né dalle invidie e cattiverie cui inevitabilmente
è oggetto, né tantomeno dai sentimenti e dalle avversità. Troppo astuta ed
ambiziosa per accontentarsi, nella sua bramosia più di una volta cade punita
per il troppo ardire, passando dalle feste in compagnia di nobili ammaliati
adorna di gioielli bellissimi, alla sconfitta ed umiliazione, in un continuo
alternarsi di ascesa e declino, desiderando sempre di più in un vortice
impossibile da fermare. Vivendo ben al di sopra delle proprie possibilità,
approfittando delle persone fin tanto che queste possono esserle utili, per poi
gettarle senza pietà, rinnegarle quando non sono più niente.
Una donna terribile! Cinica, egoista, incapace di amore
materno (questo a mio avviso l’unico peccato imperdonabile anche per la cara
Becky), arrogante, eppure quanto coraggio e spirito combattivo sa dimostrare!
Non ha certo nulla della scialba, inconsolabile ed ingenua Amelia Sedley, la
giovane compagna di collegio ed in fondo unica amica, così cecamente innamorata
del suo George da venerarlo come un Dio, proprio lui esemplare della peggior
specie maschile. Nemmeno nel personaggio di Amelia l’autore ha impresso il
carattere dell’eroe, che nella sua ostinata ingenuità non si riesce nemmeno di
compatire.
Unico labile esempio di virtù è forse rintracciabile nel
capitano Dobbin (che non a caso letteralmente significa “ronzino”, “cavallo da
tiro”), onesto e incorruttibile, da sempre segretamente innamorato della povera
Amelia sulla quale veglia in silenzio. Eppure, lo stesso Dobbin non può essere
il paladino, troppo goffo, brutto, incapace di slanci.
E’ bene rinunciare quindi alla ricerca di una qualche virtù
nei personaggi del romanzo, che proprio nei loro difetti così perfettamente
delineati rappresentano la società entro la quale si muovono. Quella società
che irrimediabilmente ha condannato Thackeray e il suo romanzo, colpevole di averla
ritratta in modo tanto meschino ed avido di soldi e potere in ogni sua
componente, dall’aristocratico londinese al baronetto di campagna. Quanti di
loro si saranno riconosciuti dietro le malcelate spoglie di un sir Pitt o un
George Osborne?
E allora, la stessa Becky povera orfana senza arte ne parte
che con la sua astuzia ha saputo penetrare in quel mondo snob ed arrogante, è
in fondo adorabile:
“Sarà pur maligna la vendetta, ma almeno è naturale. Io non sono un angelo".
Debora Lambruschini
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