Ali e corazza
di Daniele Trovato
Autodafé, Milano 2011
pp. 124
€ 13.
Romanzo breve o racconto lungo, incentrato, cioè, su una sola linea narrativa e su un solo punto di vista, Ali e corazza di Daniele Trovato mostra qualità letterarie non comuni tra gli esordienti. La voce narrante, le vicende che la coinvolgono, gli ambienti e i personaggi sono rappresentati in rilievo, ben modellati, chiaramente percepibili e lo stile e l’elaborazione letteraria assecondano, come si conviene, l’intenzione narrativa e comunicativa, senza digressioni o tormenti metaletterari.
Angela Greganti è una transessuale bella, elegante, curata e affascinante che, durante una festa per personaggi noti e potenti, tra consumo compulsivo di cocaina, trasgressioni sessuali, sprezzo di ogni legalità morale o giuridica, assiste a quello che a lei sembra essere un bestiale stupro di un ministro ai danni di una delle giovani e ornamentali invitate. La reazione della transessuale è istintiva e inaspettata, una ribellione incontrollata che la costringe ad una fuga trafelata e disperata, fino alla fine (non dico di più perché tra i meriti del romanzo c’è anche una trama avvincente non consolatoria né universalisticamente assolutoria).
Dico subito che, nonostante il preordinato schiacciamento sulla cronaca dei nostri giorni – orge dei potenti, preti pedofili, invasività dell’immagine patinata e della televisione – Daniele Trovato supera brillantemente i rischi della superficialità giornalistica, del moralismo d’accatto o, viceversa, dell’indifferenza etica e della morbosità nevrotica (se non addirittura psicotica) che ci ammorba da qualche anno a questa parte. Non c’è nessun indugio su scene più o meno trasgressive, nessun scadimento espressivo, nessuna mimesi compiaciuta e compiacente delle brutture di quegli ambienti e di quei personaggi. L’autore supera l’ostacolo grazie soprattutto ad una lingua ricercata, spesso ai limiti dell’aulico, comunque sempre controllata, capace di restituire una profondità psicologica che la materia narrativa e la scelta diaristica della rappresentazione potevano negare. Si tratta infatti di una sorta di diario scritto in diretta dal personaggio narrante, Angela, appunto, i verbi sono quasi sempre al presente; abbondano gli “adesso”; Il futuro non viene mai preannunciato né implicitamente né esplicitamente; e del passato del personaggio si dà a conoscere solo ciò che contribuisce a spiegare il suo presente. Come si vede, una scelta narrativa che esclude il distanziamento tra voce narrante e autore, che non fa mai capolino dietro le parole del suo personaggio, ed esclude anche l’elaborazione metaletteraria, ossia non ci viene detto né fatto capire quando e perché il personaggio sta raccontando questa storia. Una tecnica narrativa strenuamente e coerentemente perseguita che invoglia il lettore ad una “sospensione dell’incredulità” (uno dei rarissimi cenni metaletterari espliciti) e lo conduce ad un finale ad un tempo inevitabile e struggente: l’ultimo capitolo, non a caso intitolato Diario d’autunno, e le pagine iniziali di quello intitolato La caccia sono pezzi di bravura dei quale l’autore può andare fiero. Il mancato distacco tra materia narrata e voce narrante e tra voce narrante e autore sembrano quasi un invito al lettore ad elaborare autonomamente una riflessione, una messa in prospettiva dei dati cronachistici attraverso i quali si snoda la vicenda. E semmai il distanziamento è operato sul piano dell’espressione, tutt’altro che sciatta. Di per sé, insomma, scrivere bene e sforzarsi di guardare in profondità sono un modo di prendere le distanze sia da quel mondo e quei modi di fare sia da chi li giudica frettolosamente e ne rappresenta trionfalisticamente o disdegnosamente le gesta.
Per concludere, segnalo, senza ulteriori considerazioni, un aspetto del testo molto insistito sul quale, lo confesso, non sono riuscito ad elaborare un compiuto pensiero critico (insomma ne segnalo la presenza, troppo evidente per essere taciuta, ma non ne propongo interpretazioni). Tutto il romanzo è percorso da una specie di ansia nominalistica: la voce narrante, dopo essersi presentata, “mi chiamo Angela”, s’affretta quasi sempre a dare un nome ad ogni personaggio che entri in scena, con formule del tipo “lui è Valerio”, “lui è Carlo”, la guardarobiera “mi pare si chiami Sonia”, ecc. Che quest’ansia abbia un’importanza decisiva lo confermano almeno due rilievi: di uno dei personaggi destinati a diventare decisivi si esita a dire il nome, “prima c’era la musica…non ho capito il suo nome”, e il differimento è dunque una sottolineatura; nel già citato capitolo La caccia ogni singolo cacciatore che potrebbe appartenere ad un branco di animali o di uomini (si tratta di un sogno) ha un nome, diciamo così, primitivo, semantizzato e non convezionale, “Ringhiobasso, Mangiaspine, Bavoso, Vecchiopadre”.
Romanzo breve o racconto lungo, incentrato, cioè, su una sola linea narrativa e su un solo punto di vista, Ali e corazza di Daniele Trovato mostra qualità letterarie non comuni tra gli esordienti. La voce narrante, le vicende che la coinvolgono, gli ambienti e i personaggi sono rappresentati in rilievo, ben modellati, chiaramente percepibili e lo stile e l’elaborazione letteraria assecondano, come si conviene, l’intenzione narrativa e comunicativa, senza digressioni o tormenti metaletterari.
Angela Greganti è una transessuale bella, elegante, curata e affascinante che, durante una festa per personaggi noti e potenti, tra consumo compulsivo di cocaina, trasgressioni sessuali, sprezzo di ogni legalità morale o giuridica, assiste a quello che a lei sembra essere un bestiale stupro di un ministro ai danni di una delle giovani e ornamentali invitate. La reazione della transessuale è istintiva e inaspettata, una ribellione incontrollata che la costringe ad una fuga trafelata e disperata, fino alla fine (non dico di più perché tra i meriti del romanzo c’è anche una trama avvincente non consolatoria né universalisticamente assolutoria).
Dico subito che, nonostante il preordinato schiacciamento sulla cronaca dei nostri giorni – orge dei potenti, preti pedofili, invasività dell’immagine patinata e della televisione – Daniele Trovato supera brillantemente i rischi della superficialità giornalistica, del moralismo d’accatto o, viceversa, dell’indifferenza etica e della morbosità nevrotica (se non addirittura psicotica) che ci ammorba da qualche anno a questa parte. Non c’è nessun indugio su scene più o meno trasgressive, nessun scadimento espressivo, nessuna mimesi compiaciuta e compiacente delle brutture di quegli ambienti e di quei personaggi. L’autore supera l’ostacolo grazie soprattutto ad una lingua ricercata, spesso ai limiti dell’aulico, comunque sempre controllata, capace di restituire una profondità psicologica che la materia narrativa e la scelta diaristica della rappresentazione potevano negare. Si tratta infatti di una sorta di diario scritto in diretta dal personaggio narrante, Angela, appunto, i verbi sono quasi sempre al presente; abbondano gli “adesso”; Il futuro non viene mai preannunciato né implicitamente né esplicitamente; e del passato del personaggio si dà a conoscere solo ciò che contribuisce a spiegare il suo presente. Come si vede, una scelta narrativa che esclude il distanziamento tra voce narrante e autore, che non fa mai capolino dietro le parole del suo personaggio, ed esclude anche l’elaborazione metaletteraria, ossia non ci viene detto né fatto capire quando e perché il personaggio sta raccontando questa storia. Una tecnica narrativa strenuamente e coerentemente perseguita che invoglia il lettore ad una “sospensione dell’incredulità” (uno dei rarissimi cenni metaletterari espliciti) e lo conduce ad un finale ad un tempo inevitabile e struggente: l’ultimo capitolo, non a caso intitolato Diario d’autunno, e le pagine iniziali di quello intitolato La caccia sono pezzi di bravura dei quale l’autore può andare fiero. Il mancato distacco tra materia narrata e voce narrante e tra voce narrante e autore sembrano quasi un invito al lettore ad elaborare autonomamente una riflessione, una messa in prospettiva dei dati cronachistici attraverso i quali si snoda la vicenda. E semmai il distanziamento è operato sul piano dell’espressione, tutt’altro che sciatta. Di per sé, insomma, scrivere bene e sforzarsi di guardare in profondità sono un modo di prendere le distanze sia da quel mondo e quei modi di fare sia da chi li giudica frettolosamente e ne rappresenta trionfalisticamente o disdegnosamente le gesta.
Per concludere, segnalo, senza ulteriori considerazioni, un aspetto del testo molto insistito sul quale, lo confesso, non sono riuscito ad elaborare un compiuto pensiero critico (insomma ne segnalo la presenza, troppo evidente per essere taciuta, ma non ne propongo interpretazioni). Tutto il romanzo è percorso da una specie di ansia nominalistica: la voce narrante, dopo essersi presentata, “mi chiamo Angela”, s’affretta quasi sempre a dare un nome ad ogni personaggio che entri in scena, con formule del tipo “lui è Valerio”, “lui è Carlo”, la guardarobiera “mi pare si chiami Sonia”, ecc. Che quest’ansia abbia un’importanza decisiva lo confermano almeno due rilievi: di uno dei personaggi destinati a diventare decisivi si esita a dire il nome, “prima c’era la musica…non ho capito il suo nome”, e il differimento è dunque una sottolineatura; nel già citato capitolo La caccia ogni singolo cacciatore che potrebbe appartenere ad un branco di animali o di uomini (si tratta di un sogno) ha un nome, diciamo così, primitivo, semantizzato e non convezionale, “Ringhiobasso, Mangiaspine, Bavoso, Vecchiopadre”.
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