Fenomenologie seriali
di Caterina Davinio
Campanotto editore, Udine 2010
Caterina Davinio poetessa e artista multiforme offre ai tipi della benemerita Campanotto uno smilzo libretto di liriche che ha tutta l’aria di essere la provvisoria solidificazione di un processo espressivo in fieri. Il libretto si compone di una breve, ma altamente significativa, Nota dell’autrice, due serie poetiche, Fenomenologie seriali e Squeeze, presentate a fronte nella traduzione inglese a cura della stessa autrice e di David W. Seaman, una postfazione di Francesco Muzzioli e una nota critica dello stesso aiuto-traduttore David W. Seaman.
La varietà delle esperienze artistiche ed espressive di Caterina Davinio – s’è interessata ed ha esercitato la poesia digitale (net-poetry), le istallazioni artistiche, ecc. – la ascrivono nell’alveo delle neo-avanguardie. Rubricazione ampiamente confermata dalla postfazione di Francesco Muzzioli, a sua volta teorico e studioso delle avanguardie storiche e contemporanee, e dalla nota
critica di David W. Seaman. Tuttavia, almeno in queste poesie, l’urgenza espressiva, la furia iconoclasta, la sperimentazione linguistica non conducono a quella completa frattura tra creatore dell’opera d’arte e fruitore di essa (nel caso specifico, scrittrice e lettore) che è un tratto peculiare di molta (a mio avviso, troppa) avanguardia, storica e contemporanea. Nelle poesie di Davinio, non minimalisticamente comunicative né banali, la ricerca di una nuova e originale espressione dell’io lirico non finisce per cancellare la proprietà transitiva, il rapporto di empatia e identificazione, che è alla base di ogni esperienza estetica.
critica di David W. Seaman. Tuttavia, almeno in queste poesie, l’urgenza espressiva, la furia iconoclasta, la sperimentazione linguistica non conducono a quella completa frattura tra creatore dell’opera d’arte e fruitore di essa (nel caso specifico, scrittrice e lettore) che è un tratto peculiare di molta (a mio avviso, troppa) avanguardia, storica e contemporanea. Nelle poesie di Davinio, non minimalisticamente comunicative né banali, la ricerca di una nuova e originale espressione dell’io lirico non finisce per cancellare la proprietà transitiva, il rapporto di empatia e identificazione, che è alla base di ogni esperienza estetica.
Quasi seguendo un implicito suggerimento dell’autrice – l’amore e la poesia da intendere come “fenomeni seriali cui prestare scientifico interesse” senza però proporne un’interpretazione globale ed esaustiva – più che una recensione critica tesa a dare del testo una lettura omogenea e onnicomprensiva, preferisco allineare una serie di rilievi analitico-critici al solo scopo di fornire al lettore di queste note un’idea del libro di Caterina Davinio.
Innanzitutto Caterina Davinio, da buon avanguardista e, più in generale, da artista consapevole, mette in discussione il rapporto mondo/parola. Da un lato il mondo, la vita, il calore dell’esistente, spesso prosciugato fino allo statuto minimo, quello della pianta, dall’altra la parola che racchiude in un gelo annichilente ciò che anelerebbe ad esprimere. E la faglia tra il calore della vita e il ghiaccio della parola, che si ripete anche nel fallimentare tentativo di attivare la nostalgia di un tempo migliore, se non felice, sta nell’irrisolto grumo psichico dell’io lirico che la vita non sa né può dispiegare verso il futuro e non sa né può riavvolgere verso un inattingibile passato. E la parola non ha la forza e l’innocenza necessaria per penetrare e sciogliere quel grumo:
Con le pupille-chiodie il suo sguardo colmo di sempreche gli imploravo menzogne eternepaurosamente veritieree di non s-dimenticarmi maimi guardava con forza (i suoi occhibelli piantavano duri chiodidi ferro nero)dove ero più buia.
Particolarmente esemplificativa di questa sorta di poetica dell’istante inesprimibile – l’esatto opposto della poetica dell’epifania che ha percorso tanta parte della poesia del Novecento, “stringimi e non accadere, amato mio” – e della straziante irresolubile contraddizione tra consapevolezza della parola e inconsapevolezza della vita, indialetticamente giustapposte, è la “demente” allitterazione sull’occlusiva dentale sorda (T) in clausola di una delle poesie:
(…)E il tuo tempoIl tuo tuttoIl tuo ferro la tua pietra.
Sul piano del significante si riproduce, dunque, quell’occlusione sorda ed esplosiva che si gela nell’attimo stesso della sua espressione – ed è da notare che questa stessa poesia è costruita nella sua prima parte sulla sinestesia, figura invece del significato, in giustapposizione irrisolta con la clausola.
Sempre da buon avanguardista e, più in generale, da artista consapevole, Davinio sa offrire, specie nella sezione Squeeze, rivolgimenti di prospettiva da cui guardare al mondo di notevolissima efficacia. In particolare nella breve serie intitolata Cocaina – sul cui uso l’io lirico appunta uno sguardo feroce e implacabile – l’autrice fa dello stupefacente ciò che i credenti (o falsi credenti) fanno della vita quotidiana rispetto al Dio di cui si sentono o vogliono apparire devoti: un vizio del quale chiedere e immancabilmente ricevere il perdono, sanzionando la consolante frattura tra il male e il bene, tra l’immanenza e la trascendenza:
Ti fai fragile, perdented’emozione vibrataesercitata al vizioe debole di colpaVita in eccesso, dici,citoplasmatico edonismo,così battezzi amoreil nostro minutoche fugge.
Altro ci sarebbe da aggiungere su queste poesie di non comune profondità e capacità di tradurre in immagini una personale e sofferta visione del mondo. In particolare, sarebbe davvero interessante se un appassionato insegnante che non abbia di fronte giovani frettolosi e intorpiditi, partendo tra una traccia leopardiana riconoscibile in una delle poesie di Davinio (La casa II) potesse ricostruire per contrasti e risorgenze un profilo della poesia italiana recente. Ma mi ero proposto un limite, e lo rispetto.
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