Il 5 maggio si è inaugurata alle Ciminiere (sala E1) di Catania la rassegna Il maggio dei libri. Nel brulicare disordinato dell’allestimento e le moleste interviste dell’ultima ora, solo le prime file della platea, compostamente schierate, badavano all’esibizione di due giovani allievi dell’Istituto musicale “Bellini”, l’uno al flauto traverso, l’altro alla chitarra. Sulla scena cinque troni vuoti.
L’incontro con l’autore Roberto Andò, regista e romanziere (se mai occorra distinguere le due voci), comincia. Coordina il professore Antonio Di Grado; quindi un giovane trentenne militante della destra cittadina si affannerà, le successive due ore, a servire il microfono ai relatori. Andò tiene un umile centro, alla sua sinistra il Presidente della provincia, ancora più a sinistra Franco Battiato.
Il trono vuoto (Bompiani 2012) è la storia di una scelta, ovvero di una rinuncia, ancora meglio diremmo di una scomparsa. Le prime parole dell’introduzione di Antonio Di Grado auspicano che la sinistra “nominale” dell’Italia postpolitica, quella sinistra desolata e snervante che pure tanto orgoglio aveva trasudato, trovi il modo di andarsene, proprio a imitazione del protagonista del romanzo. Segretario di un partito di sinistra per il quale gli ultimi sondaggi registrano un calo di consensi, Salvatore Olivieri, emblematico uomo senza qualità che ricalca senza mezzi termini la vacuità ideologica ed esistenziale della fasulla rappresentanza politica del Bel Paese, decide la fuga. Davanti a tale impasse, la narrazione trova una soluzione schizofrenica, la sola consentita: un’urgente e presta sostituzione con l’omozigote dell’inerme politicante, un filosofo appena dimesso da una casa di cura, che assume la guida del partito; si tratta di uno snodo non conforme alla figura del deus ex machina, quanto piuttosto a quella di un rivoluzionario, lo straniante modus agendi dell’invasato Ernani, un malpensante di memoria quasi bufaliniana. Filosofi e pazzi, “le due categorie prossime più di tutte all’intuizione del Vero”, come è stato sottolineato.
La struttura narrativa – Battiato interviene per definirla “ottagonale” e in questo senso squisitamente contemporanea – attrae il lettore nelle maglie di un’allusività che, forse, l’odierna intelligencija non ha più gli strumenti necessari a comprendere. Andò afferma che all’epoca della composizione non era neppure prevedibile in Italia l’instaurazione di un governo tecnico, e che la volontà di scrivere – e farlo, nella fattispecie con calviniana leggerezza – sorgeva in primis dal bisogno di evadere dalla realtà. Questo atteggiamento, che è quasi normativo dell’istituzione letteraria, intercetta il piano della realtà storica attraverso il dispositivo, non dichiarato eppure pervasivo, della dissimulazione. A svelare molto del sostrato narratologico e metaletterario del Trono vuoto, ha contribuito la puntuale valutazione di Di Grado, che è riuscito a valicare l’opinione della critica (forse troppo legata alle definizioni di genere), attestandosi su un’analisi scientifica dei disparati livelli di lettura: la platonica e semplicistica impressione “fantapolitica”, a ben vedere, è solo una quarta di copertina.
Da Goethe e Sciascia a Musil e Brecht, il ductus tracciato dalla progettualità moriana di Roberto Andò (utopica o democratica, a quale Moro si voglia guardare poco importa) tenta di scuotere l’italiano Zeitgeist, ammorbato da un derelitto senso di passività.
Quasi alla conclusione del confronto, qualcuno domanda se il libro verrà mai tradotto per il grande schermo: si è riconosciuta da subito, infatti, la portata cinematografica di quest’opera, baluardo di una recalcitrante vita activa, rimpolpata di contenuti e coscienza; e lo stesso autore anticipa che è già impegnato a riscriverne un adattamento.
Da estimatore di Lubitsch, Andò chiude il dibattito nella condivisibile profezia che non troppo tardi accadrà nella politica quel che già avviene nel cinema: un segno di interpunzione che nel gergo della cinematografia dicono dissolvenza.
A. Gatto
A. Gatto
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