Old Market Square (la piazza principale) |
Domenica 9 settembre – dopo la delusione per un incontro sulla poesia a cui non ho potuto partecipare, siccome la saletta era gia’ piena! – ho assistito alla performance musicale Mandala nella piazza principale della città: sonorità indiane mescolate a proiezioni luminose assai suggestive e culminanti in un assolo di tamburello che nulla aveva da invidiare – ai miei occhi – ai virtuosismi del pianoforte.
Lunedi 10 settembre il cinema indipendente Broadway ha ospitato i cortometraggi di promettenti registi da varie parti del mondo. La sala era gremita, e qualcuno ha dovuto sedersi per terra: segno che l’arte dei giovani interessa, anche se – a dire il vero – il rischio di autoreferenzialità generazionale (giovani che seguono altri giovani) c’è tutto, ed è forse uno dei pochi limiti che ho potuto constatare. Quanto ai corti, pur nella lampante diversità di temi e stili, molti di essi corteggiano la parola letteraria: è senz’altro il caso di Mikrokosmos di Marco Longo, dove i protagonisti s’interrogano su identità e possesso, sull’aspirazione di “divenire altro da sé”, ripercorrendo un tema dell’erranza e dello spaesamento tipico della filosofia e dell’arte novecentesca (Heidegger-Celan), in una solitudine domestica, minimalista ma quasi atemporale. L’uso di monologhi teatrali, giustapposti e però slegati tra loro, stride volutamente con il realismo delle scene (una cucina, una passeggiata per i sentieri). Un contrasto audio-visivo più netto è in “Rabbit Hole” (che in inglese è una metafora per l’ignoto: si pensi ad Alice nel paese delle meraviglie!), dove la sceneggiatura è un cut-up di discorsi ideologici e politici sovrapposti al vagare ed esplorare di una bambina in un bosco. L’elemento intellettuale, in effetti, è un po’ la dominante dei film, alcuni dei quali rinunciano addirittura alla parola e si affidano alla potenza delle immagini, come in “Shadows” di Pierre Ellul, dove tre danzatrici si muovono in scatti netti, drammatici, quasi obbligate da un demone interiore che sembra possederle interamente. Una nota di levità si ha con “Convergentes” di Alejandro Portaz, dove le dinamiche dell’amore (il mancarsi sempre per un soffio, in un gioco spassoso di quasi-incontri) sono sottolineate da una musica vivace, con effetti leggeri di commedia.
Poche ore dopo tocca alla letteratura, con l’evento “Writing in Exile” che ospita, nella sala presentazioni del museo di arte contemporanea (Nottingham Contemporary Art), tre poetesse (Sofia Buchuck, Mehrangiz Rassapour e Vahni Capildeo) provenienti dalla Peruvia, dall’Iran e da Trinidad. Presenta e modera Kadjia Sesay, fondatrice della rivista letteraria SABLE. Tramite letture e domande si ha così avuto la possibilità di guardare alla scrittura dell’esilio da diversi punti di vista: il più doloroso è senz’altro quello di Mehrangiz Rassapour, costretta dalla censura del suo paese a emigrare e pubblicare fuori dalla sua terra. Le sue poesie sfidano l’autorità, sono un grido viscerale (efficacissima la lettura originale in farsi, ma anche la traduzione in inglese ottimamente interpretata da un’attrice). Di brillante intelligenza Vahni Capildeo, che ha pubblicato tre raccolte poetiche (l’ultima per Salt, casa editrice britannica indipendente e di qualità) e che insegna all’università di Glasgow. Poeticament deludente, a mio avviso, Sofia Buchuck, che tuttavia si è riscattata nella veste di cantautrice, cantando con grazia alcune struggenti canzoni argentine e peruviane. L’incontro è durato quasi due ore, e non sono mancate domande interessanti da parte del pubblico (una su tutte recitava più o meno così: “Non credete che la categoria della “scrittrice in esilio”, civilmente impegnata, rischi di limitare le vostre potenzialità di scrittrici a tutto campo?”).
Finora ho parlato di musica, film e letteratura: eppure l’arte è stata interpretata in modo più ampio, dando luogo a manifestazioni culinarie di tutto rispetto: ad esempio la cerimonia cinese del tè nella teieria Lee Rosy’s, dove mercoledi 12 settembre ho potuto osservare la tradizione cinese di versare il tè in piccolissime tazzine, con una ritualità sconosciuta a noi occidentali. Oppure la degustazione vinicola abbinata a piccoli assaggi al Fat Cat, giovedì 13, accompagnati dalla voce del sommelier a descrivere le caratteristiche di ogni vino.
Messaggi appesi all'albero, nella notte |
Video-installazione al castel |
La Crocus Gallery |
Bonington, Art Gallery |
Dopo aver visitato due piccole esibizioni al pub The Malt Cross e nella parruccheria no28 Barbers (con foto iperrealiste aventi per soggetto uomini e donne latinoamericane in ambienti domestici, ritratti durante il lavoro), mi sono diretto al New Art Exchange. Qui sono esibiti soprattutto artisti dell’area mediorientale, come la scrittura visiva di Mustapha Akrim (vedi qui) e diversi cortometraggi. Di questi, desidero ricordare “Human Nailing” di Ivan Ivanovski, che riprende a ritroso la creazione di un’opera d’arte, focalizzando l’obiettivo sui chiodi (ma senza nessun martello o mano umana a schiacciarli: così che sembrano animati) e sulla creta, per tornare poi solo alla fine sulla figura intera nel frattempo creata; un tour de force stilistico di grande impatto, insomma. Straziante e altrettanto originale nell’idea il corto di Orr Menirom, dove l’obiettivo rimane fermo sulla combustione della plastica che ricopre un carrello: quando la plastica si scioglie, sullo sfondo appaiono desolati casermoni, mentre una musica triste e severa sottolinea il non-evento (qui).
Spazio espositivo a The Malt Cross |
Qui si chiude la mia cronaca, se di cronaca per un evento così totale si puo’ parlare: questo è un ventesimo, forse solo un centesimo di quanto è accaduto qui. Vorrei però finire con alcune considerazioni sulla macchina organizzativa: la massiccia presenza di sponsor (una cinquantina, molti dei quali le stesse location) e l’insostituibile lavoro dei numerosi volontari hanno permesso la realizzazione di un festival che davvero ha messo l’arte in primo piano, in centri commerciali, pub, bar e piazze, a contatto con un pubblico che altrimenti non l’avrebbe approcciata. Artisti che hanno esibito o collaborato insieme si saranno senz’altro conosciuti, qualcuno avrà stretto contatti e magari in futuro inizieranno sodalizi. Certo, la qualità delle opere (almeno, quelle che ho visto o ascoltato io) è stata altalenante, con scarti anche molto grandi; a tratti il sistema delle prenotazioni online non ha funzionato; il rischio di villaggio interno (di olimpiade dell’arte) c’è stato, dato che l’evento – strano a dirsi – non era troppo pubblicizzato, al punto che molti miei colleghi all’università non sapevano neppure che ci fosse. A discolpa, si può dire che questa è la prima edizione, e che comunque ciò che conta è il clima creatosi, le opportunità future. Quello di WEYA è un modello al quale l’Italia dovrebbe guardare – un modello che sia inclusivo delle più varie forme d’arte (la letteratura, in Italia, l’ha un po’ scelto di separarsi dalle altre arti) e realizzi una compenetrazione con il suolo pubblico. Un modello che insomma vada contro l’idea di riserva o di isola assediata. Qualcosa, a dire il vero, esiste già, sia pure con un budget assai minore: penso ad esempio a “Leggevamo Quattro Libri al Bar”, catena di eventi spalmati sul territorio nazionale (pavese soprattutto) inaugurata dall’associazione Vivere con Lentezza, e ora alla sua quinta edizione. Quando si accorgerà di tutto questo, il mondo delle patrie lettere? Quando si capirà che il problema del pubblico non è l’arte ma il modo di proporla?
Davide Castiglione
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