Manfred
di Patrizia Valduga e Giovanni Manfredini
Lo Specchio Mondadori, 2003
pp. 87
€ 12
Si torna a cantare l’amore in quartine «quale
contestazione tanto impudente quanto […] filosofica» [1]
con la singolare sperimentazione di Manfred. Si tratta di un’opera a quattro mani: la poesia di Patrizia Valduga si
intreccia alla pittura di Giovanni Manfredini: una quartina in campo bianco o
nero alternata a un quadro, talvolta replicato o diversamente ingrandito. I
soggetti di Manfredini sono uomini colti nella loro fisicità quotidiana, non
abbrutita ma spogliata di qualunque bellezza tradizionale: corpi
bianco-giallastri spiccano in punti-luce dalle tenebre, o vi si nascondono,
lasciando emergere singoli dettagli della loro nudità animale, raccolta e non
esibita.
Se ci atteniamo all’indagine versale, si può leggere Manfred come una confessione metapoetica
ed esistenziale che porta a galla tanti temi sprofondati nelle opere
precedenti. Manfred(ini) risponde sulla tela agli interrogativi della poetessa,
comprendendola per via delle loro «solitudini gemelle»: vi si ritrova il tema
del «lungo questo tempo senza fine» (11), più volte presentato in tono
misticheggiante, con tessere evangeliche (sanguinamento per avere il proprio
pane quotidiano; liberazione dai mali; chiusura con l’«amen», 27). Nel
ricorrente appello al cuore (31-32), si registra l’invasione dell’amore, con la
furia dei limiti da superare, lo sconvolgimento delle coppie antinomiche
dentro/fuori, su/in/oltre:
Per me dentro di me oltre la mente
il suo corpo su me come una coltre
ma oltre il corpo in me furiosamente
in me fuori di mente oltre per oltre…(19)
Dalla riconsiderazione del proprio passato,
riemerge la coesistenza di amore-odio per il partner: ammessa la costante
insoddisfazione sessuale, qui si avanza una richiesta di ricomposizione più
intensa che in passato (46).
È questa l’occasione per ricordare l’amante,
condividendo le frasi che hanno suggellato l’amore «osceno e sacro» (66), sempre
sospeso tra l’ansia di sopraffazione fisica e violenza. Alcuni versi ricordano
le Cento quartine, ma in assenza
dell’amante: le domande e le risposte sono «fantasie uditive» (68) dal vortice
della memoria (da cui risorgono autocitazioni), si intuiscono dal contesto,
dalle reazioni di lei, ma non hanno abbastanza forza per uscire dall’implicito
e imprimersi sulla pagina:
E tu? Sì, grazie. Senti come piove!
Vuoi che ci amiamo in piedi come i cani?
Di qua. Proviamo. A destra. A destra,
dove?
Ho freddo, ho fame. E tu? Grazie. A
domani. (67)
Subentra il ricordo della «costrizione al
godimento» (23), qui esplicitata nel suo «fingere di non avere voglia/ perché a forza mi facesse volere» (72),
fisicamente e mentalmente,[2]
fino a zittire la mente (80):
Violentami, costringimi a godere,
fendendomi con tutta la tua forza,
e fa’ di me secondo il tuo volere
sii il mio flagello, dammi fuoco e forza.
(77)
Stremata non dalla passione ma dal suo ricordo
ormai irreplicabile, l’io-lirico avanza una richiesta di conforto, in
previsione della morte incombente (87), rappresentata dalle emblematiche pagine
nere in chiusura.
Gloria M. Ghioni
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