Libro delle laudi
di Patrizia Valduga
Einaudi, 2012
€ 8.50
L’ultima opera ad oggi pubblicata di Patrizia Valduga è il Libro delle laudi, già apposta a postfazione
degli Ultimi versi di Giovanni
Raboni.[1]
I versi di Raboni hanno una sottile vena polemico-nostalgica che tratta di
petto i principali problemi della politica, in una serie di caustici “Trionfi”
che segnano la disfatta del presente. Dunque, non si tratta di una poetica
amorosa che tenga presente la compagna, ma il mondo che lei continuerà ad
abitare. Al contrario, la postfazione di Valduga è tutta protesa verso il
compagno morente. Che Giovanni sia dedicatario dell’opera, è esplicitato fin
dall’epigrafe: l’opera riverbera il legame con la malattia e la morte ormai
prossima: si tratta di una poesia in apnea, che segue in distici gli spasmi e
sposa l’andamento liturgico per la supplica a una stoica sopravvivenza («resisti»
è frequente, specie ad apertura versale). Si semplificano la metrica
(raggruppamenti di distici) e la lingua, come anche lo schema rimico (frequenti
rime identiche o equivoche), in direzione di un’immediatezza comunicativa. «Cuore»,
«vita» e «amore» sono parole-chiave che, con la loro semplice ma ricca eredità
semantica, conducono a un messaggio privato e commosso da rivolgere ora
all’amato, ora a Dio, cui si affida l’onnipotenza della guarigione: «Di’ la
parola e lui sarà guarito» (20). Quindi, alla parola si affida un potere
salvifico più forte e assoluto rispetto alle precedenti opere.
Il ruolo dell’uomo è presentato attraverso
analessi d’intensa autobiografia dell’io-lirico, in cui affiorano traumi
infantili che spiegano senza giustificare le difese della donna contro
l’invasione del sentimento (11-12). È anche poeta prediletto, che si vuole
interiorizzare completamente:
Una tua poesia, basta una sola,
basta a sbalzarmi il cuore fino in gola.
Ti sento in me, ti voglio dentro me,
fatta di te, parola per parola. (22)
Non mancano ripensamenti metapoetici, che
riconsiderano e ridimensionano la propria scrittura alla luce del dramma
presente: «Quante scemenze ho scritto nei miei versi/ sulla notte, sul sesso e
sull’amore» (25). Tutta la seconda sezione, dolorosamente in morte di Raboni, è
invece un’angosciata rievocazione della propria infanzia: la psichiatria ha
fallito nel trattare i traumi di maltrattamenti infantili; più efficace,
invece, l’amore di Raboni nel combattere «l’infanzia sempre mai finita» (42) e
l’avvertimento costante di colpevolezza e impurità (45). La terza sezione è
tutta una denuncia aperta di dolore per la mancanza d’interlocutore: si apre
una critica aperta alla società letteraria, abbrutitasi a giornalismo di basso
ordine, contro cui solo l’opera di Raboni è speranza e motivo di inesausto
ringraziamento. E nella critica sociale, così accorata e analitica, non può non
vedersi di riflesso il caro estinto.
Gloria M. Ghioni
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