di Goliarda Sapienza
Einaudi, Torino 2008
Con prefazione di Angelo Pellegrino e postfazione di Domenico Scarpa
La congerie di fatti letterari, paraletterari ed
extraletterari che ha circondato e assediato questo romanzo e Goliarda Sapienza
dall’inizio della sua stesura (1969) fino all’improvvisa esplosione come testo
letterario d’imprescindibile valore (2005) è ben ricostruita dalla prefazione
di Angelo Pellegrino e dalla postfazione di Domenico Scarpa che completano questa
edizione Einaudi. E se ne potrebbe ricavare un poco edificante capitolo di
storia (o sociologia) della letteratura italiana del Novecento, capitolo che
potrebbe concludersi con l’auspicio che la letteratura siciliana chieda a gran
voce l’indipendenza dalla letteratura italiana. Troppi i soprusi subiti:
dall’irreparabile toscanizzazione dei poeti siciliani del Duecento agli
sbeffeggiamenti perpetrati ai danni del Gattopardo,
dallo sdegnato autoesilio di Sciascia all’incomprensibile silenzio attuale su
Stefano D’Arrigo, dalla sottovalutazione di Gesualdo Bufalino alle vicende
editoriali dell’Arte della gioia,
rifiutato da tutti, dico tutti, i grandi e medi editori italiani, ripreso e
ipocritamente vezzeggiato solo dopo che il romanzo aveva avuto un clamoroso
successo di pubblico in Francia. Verga, Pirandello e Camilleri sono
risarcimenti dovuti, ma insufficienti.
L’arte della gioia
è un romanzo sfrontato, profondo, vitale, pulsante, vero. È un corpo
contundente con il quale Goliarda Sapienza intendeva colpire e scuotere dal
torpore la stagnante, autoreferenziale e autocompiaciuta società letteraria e
intellettuale italiana di allora. Per ciò stesso, per questa sua immediatezza e
ingenuità, non è e non poteva essere un capolavoro letterario assoluto. Sul
piano della realizzazione letteraria L’arte
della gioia sconta due evidenti difetti: il didascalismo e la ripetitività.
Difetti che sarebbero potuti essere esiziali per chiunque non fosse provvisto
della forza comunicativa, del temperamento e della strenua volontà espressiva dell’autrice.
Goliarda Sapienza aveva qualcosa da dire, doveva trasmettere un’esperienza di
vita importante e utile, ma non aveva né ha voluto avere quelle forme
espressive sinuose, accattivanti, elaborate che caratterizzano la scrittura dei
letterati e degli intellettuali di ogni tempo. È un romanzo fatto di scorci
narrativi, di curve a gomito, d’insofferenze e abbandoni lirici e di soluzioni
espressive personali del tutte aliene dalla ricerca del “bello scrivere” o
della bella arcata architettonica. È un romanzo che quando ne ha bisogno, e
solo allora, sa porsi anche al limite della grammatica (a cominciare dal
bellissimo incipit: «Ed eccovi me a quattro, cinque anni…»). Il discorso che L’arte della gioia mi ispira e che mi
preme fare mi spinge ad evitare una puntuale e dettagliata analisi delle
qualità e delle incongruenze letterarie del romanzo. Analisi che pure avrebbe
una sua ragion d’essere, ma che, in questa sede e nel breve spazio di un
articolo, finirebbe per annacquare e complicare il nucleo tematico che lo rende
così importante e originale.
L’arte della gioia
racconta l’avventurosa vita di Modesta, nata, poverissima, nel 1900 e fin
dall’infanzia guidata dall’infallibile e amorale volontà di ascoltare ed
esaudire la richiesta di piacere che sale dal suo corpo e dalla sua anima.
Modesta è una vera e propria “macchina desiderante” (locuzione che riprendo
dall’Antiedipo di Deleuze e Guattari)
in corsa per il mondo, che la ostacola, ma non la vince, e dal quale spreme
ogni possibilità di piacere, senza sottrarsi al dolore e alla perdita. Modesta
attraversa la storia del Novecento, diventa ricca, è condizionata, ma non
determinata, dall’ambiente familiare, sociale e storico entro cui si trova a
vivere (o meglio sarebbe dire, entro cui si trova a perseguire l’esaudimento
dei propri desideri). Il personaggio è un’evidente proiezione ideale e
letteraria dell’autrice, ne è la “macchina desiderante” librata nei cieli della
libertà assoluta, affrancata dai pesi della morale, delle contraddizioni, delle
remore ancestrali e culturali, dalle pastoie materiali. A bordo di questa
“macchina desiderante” Goliarda Sapienza può guardare al mondo, alla storia,
alla società e alla famiglia senza travi nell’occhio e può diffondere
liberamente la sua esperienza esistenziale, facendo dell’elaborazione
letteraria uno schermo trasmettitore, un tramite, al tempo stesso distorcente e
trasparente. Modesta diventa una roccia, un mulino a vento contro cui vanno a
sbattere tutti i donchisciotte nutriti d’illusioni idealistiche, di
sovrastrutture culturali, religiose e ideologiche. Nella sua splendida carriera
da essere umano condizionato e oppresso dal mondo a donna libera e disposta a
godere del bene e soffrire del male che il mondo sa offrire e infliggere,
Modesta fonda una specie di comunità di uguali che riesce a fare a meno
dell’atavica e apparentemente inestirpabile successione patri o matrilineare.
Fonda, cioè, una comunità di fratelli e sorelle. E anche qui torna buono il
libro di Deleuze e Guattari che contestavano la primazia del rapporto
genitori/figli in nome di un possibile sviluppo collettivo antigerarchico
fondato su quello fratelli/sorelle. Goliarda non poteva conoscere l’Antiedipo, che s’andava elaborando
proprio negli stessi anni di stesura del romanzo, ma, come Deleuze e Guattari, si
opponeva al teleologismo delle ideologie dominanti (capitalismo, marxismo e
cristianesimo) e alla psicoanalisi che raccoglieva i transfughi dell’uno e
dell’altro, fornendo loro l’ombrello scientifico sotto il quale continuare
l’opera di repressione dell’istintuale propensione alla gioia e al piacere. Da
un lato ideologie e religioni che fanno della vita uno strumento e non un fine,
dall’altro un pensiero teorico-scientifico che mette la vita sotto lo scacco
della colpa (l’uccisione del padre). S’è detto, a ragione, che in questo
romanzo Goliarda fa una “strage di madri”, ma la scrittrice doveva liberarsi
letterariamente, ovverosia idealmente e in effige, di una madre “ingombrante”,
quella Maria Giudice, citata in obliquo anche nel romanzo, che è stata una
grande attivista politica, che ha lottato e pagato duramente per le sue idee di
giustizia sociale, di parità tra i generi e di libertà. E di fronte ad un tale
esempio di solidità ideologica, al contempo ammirevole e intimidente, la donna
Goliarda Sapienza ha lasciato alla scrittrice il compito di superarla, di
andare oltre e di spiegarsi e spiegare perché continuava a cercare e godere del
piacere del presente, del corpo e dell’abbandono. L’arte della gioia è un inno, ingenuo e grossolano, tenero e impunito,
al piacere, alla libertà, all’autocoscienza e all’autodeterminazione.
Per concludere, voglio offrire un florilegio di
inserzioni sapienziali (nomen omen)
tratte dal romanzo sulle quali mi sembra opportuno meditare.
Una volta diventa ricca, Modesta dice a se stessa: «no, non
sarei diventata l’impiegata del mio patrimonio». Al riguardo mi sembra urgente
ricordare che una delle parole d’ordine del neoliberismo tronfio e trionfante
che guasti enormi ha prodotto negli ultimi quarant’anni era proprio “diventa
imprenditore di te stesso”, ossia fai della tua vita un’impresa economica.
Durante un dialogo tra uno dei suoi amanti e Modesta si
ha l’opportunità di leggere queste battute: «- Tu sei ancora innamorata di
quell’uomo! – Non di quell’uomo, Carlo, ma dell’accordo fisico che c’era tra di
noi quando facevamo all’amore. – Diventi volgare, Modesta. – Per te tutto
quello che è vero è volgare»
«C’è un limite preciso nell’aiutare gli altri. Oltre quel limite, a molti invisibile, non c’è che la volontà di imporre il proprio modo d’essere».
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