A 45 anni
Guido Marchisio, torinese, ha sempre pensato di essere l’ambizioso dirigente
della Moosbrugger prima sposato con Cinzia, ora fidanzato di Carlotta, 25 anni ex
stagista nella sua azienda, ragazza alquanto frivola che pensa tutto possa
risolversi con il sesso.
Un incontro
casuale in un bar con un uomo che dice di conoscerlo gli cambierà la vita.
L’uomo vede in lui, non Guido Marchisio, ma Ernesto Bolle un compagno
d’infanzia che, proprio come Guido, aveva gli occhi di due colori diversi e un
neo in un punto preciso. Coincidenze che si sommano ad altri episodi troppo strani
per essere trascurati creano ansia in Guido, il quale inizia a domandarsi se non
abbia veramente un sosia. Non esiste nessun doppelgänger perché Guido e Ernesto
sono la stessa persona.
Ernesto era il bambino che giocava a pallone alla Falchera, un quartiere popolare di Torino, nato in una famiglia
comunista con un padre che negli anni Settanta fomentava le ribellioni nelle
fabbriche e una madre che in Uruguay era stata vicina al movimento dei
Tupamaros. Figlio di due giovani un po’ sfaccendati ma anche idealisti, nipote
di un uomo, Luigi Aymar, operaio che ha vissuto per la fabbrica.
Guido, ironia della sorte, è ora dall’altra parte: un dirigente non integerrimo che ogni giorno ascolta le richieste disperate dei suoi operai che lo pregano di non togliere loro il lavoro. Lui che ha una pistola sotto la giacca perché minacciato di fare la stessa fine di un altro capo d'azienda, Renato Braino, vittima di un attentato terroristico nel 1980.
Guido, ironia della sorte, è ora dall’altra parte: un dirigente non integerrimo che ogni giorno ascolta le richieste disperate dei suoi operai che lo pregano di non togliere loro il lavoro. Lui che ha una pistola sotto la giacca perché minacciato di fare la stessa fine di un altro capo d'azienda, Renato Braino, vittima di un attentato terroristico nel 1980.
Nell’incidente
in cui morirono i suoi genitori, Ernesto perse la memoria. La sua famiglia adottiva dovette inventare storie per giustificare quella cicatrice in
testa, per fargli credere che lui fosse sempre stato Guido, per non fargli
sapere quale frattura la sua esistenza avesse subito. Guido è costretto, ora, a
rivalutare tutto e mettere in discussione se stesso.
Nei racconti
attraverso cui Guido ricostruisce il proprio passato emerge la Torino delle
occupazioni operaie sullo sfondo dell’Italia degli Anni di piombo. Il privato e
il sociale si sovrappongono per ripercorrere uno spaccato della nostra storia,
quello della grande industria che a Torino ha avuto la sua capitale. Il destino
di Ernesto/Guido è innegabilmente legato a quella realtà così ambivalente. Le
fabbriche risucchiavano gli operai costringendoli a turni massacranti,
privandoli dalla loro dignità. Alessandro Perissinotto conosce bene ciò di cui
parla, anche lui, infatti, è stato operaio.
Il cronometro era un ossessione per tutti. Eravano cronometrati anche quando andavamo al gabinetto ed era già tanto se il capo reparto ti mandava la sostituzione per permetterti di andarci. Alla fine, almeno che non ci scappasse la grossa, non chiedevamo neanche più di andare al cesso: pisciavamo nelle scocche. Poi le scocche si arrugginivano, ma mica potevamo farcela addosso. E dovevi vedere come eravamo vestiti: mica ci davano la tuta. A casa rimediavamo tutti gli stracci che potevamo metterci addosso. Lo sai come la chiamavano la fabbrica all’epoca?
Guido lo sapeva, come lo so io, come lo sanno tutti qui: la chiamavano ‘La Feroce’. Perché divorava le vite.
Tuttavia, quando
tutto questo rischia di non esserci più, e non si può non pensare al nostro presente,
subentra il senso di abbandono, la paura di perdere ciò che, nonostante tutto,
è parte delle persone.
Perissinotto ad #Anteprime13 |
Noi, vittime dirette o indirette di questa o di altre Feroci, ci sentiamo abbandonati quando i nostri supposti carnefici ci dicono ‘è finita’, ‘sei libero’, ‘la fabbrica che ti imprigionava, che ti rubava le giornate, non c’è più, è da un’altra parte a sbranare altre vite. […] E si raccontano, non meno abbandonanti, ma più segreti, i casi di quegli operai che, pur potendo scegliere di andarsene con una buonuscita, hanno preferito restare: per loro erano stati creati i reparti di confino, le officine punitive e lì erano rimasti. Noi siamo così come cani fedeli e obbedienti anche quando il padrone ordina loro di stare lì fermi, a cuccia, e poi sale in macchina, allontanandosi velocemente lungo l’autostrada.
Le colpe dei
padri, candidato al Premio Strega 2013, segue
il filo della storia di Guido Marchisio per addentrarsi in una piaga della
storia che sembra tuttora sanguinante. Ancora una volta il romanzo insegna
come le vicende personali non possono essere comprese di per sé, ma hanno
bisogno di essere inquadrate in una dimensione più ampia che, però, continua a
sfuggire.
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