di Cristopher Isherwood
Adelphi, 2013
pp.243
Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto; non penso, accumulo passivamente impressioni. Registro l’uomo che si rade alla finestra e la donna in chimono che si lava i capelli: un giorno tutto ciò dovrà essere sviluppato, attentamente stampato, fissato.
Quasi una dichiarazione di poetica quella con cui si apre lo straordinario Addio a Berlino, romanzo dal fascino senza tempo, pubblicato nel 1939. Il protagonista, un inglese nel quale non è difficile ravvisare i tratti dello stesso Isherwood, si trova a Berlino negli anni 1930-33 e tira avanti – tra una difficoltà e l’altra – insegnando la propria lingua. Nel suo diario diviso in sei episodi – Diario berlinese (Autunno 1930), Sally Bowles, Sull’isola di Ruegen (Estate 1931), I Nowak, I Landauer, Diario berlinese (Inverno 1932-33) – registra la realtà che lo circonda con lo stesso atteggiamento impassibile di una macchina fotografica, cogliendone le grandi trasformazioni e i minimi dettagli. Con sorprendente esattezza il clima della Berlino prenazista, con una Repubblica di Weimar ormai avviata al tramonto, ci è riconsegnato da una voce che a distanza di ottant’anni non ha perso la sua energica incisività e che non sarebbe assurdo considerare a tratti drammaticamente attuale.
Isherwood regala l’istantanea di un mondo sull’orlo di un precipizio, che tristemente presagisce l’orrore sottostante: sono gli ultimi respiri di una società tedesca che di lì a poco sarebbe stata spazzata via dal vento del totalitarismo e della Seconda guerra mondiale. Berlino sembra una di quelle vecchie signore che si ostinano a voler sembrare ancora giovani e belle ma che hanno il volto della decadenza. E tutta l’umanità disperata che vi si muove ha il fascino del decadente: Frl. Kost, un’anziana bizzarra affittacamere, l’ammaliante giovane Sally Bowles che si lega a uomini ricchi nella speranza di fare un giorno l’attrice, Natalia Landauer, rampolla di una famiglia ebrea dell’alta società, la Signora Nowak che con immane fatica cerca di sostenere la propria famiglia che scivola nell’inferno della povertà. Dietro le vicende dei personaggi – che non sono sempre tristi, ma che anzi talvolta assumono i toni scanzonati della commedia amara – si staglia l’orrore della Storia: l’antisemitismo che prende piede, la crisi economica che piega il paese e il regime hitleriano che, con la sua componente militaristica, inizia a mostrare la sua forza e il suo volto più oscuro. È il languore crepuscolare di un “Impero alla fine della decadenza”, come avrebbe detto Verlaine. Sebbene sotto la scrittura di Isherwood si avverta una profetica capacità di analisi storica, quello che più gli interessa è il ritratto dell’umanità coinvolta. E così i personaggi si staccano potentemente da una pura contestualizzazione storico-sociale e diventano correlativo oggettivo di tutti i crolli della Storia.
Tra cabaret, pensioni malridotte, invivibili case popolari, manifestazioni di piazza, infernali riformatori, botteghe abbandonate e caffè frequentati da intellettuali, il romanzo prende il ritmo dell’esistenza e, se anche non può essere considerato meramente autobiografico, l’impressione è che la letterarietà sia così meravigliosamente costruita da nascondersi magicamente trasfondendosi interamente nel flusso della vita. E non si creda che il declino alle soglie della guerra sia descritto solo con toni tragici; come scrive Giovanni Raboni nella sua introduzione all’edizione Garzanti del 1966, “la sensazione e il significato della tragedia sono resi in Isherwood con tocchi mirabilmente lievi, rapidi, quasi distratti; con i toni e le tinte del dramma borghese se non, molte volte, con quelli della commedia.” È si “la prova generale di un disastro” (sono parole dello stesso autore), ma essa prende le note di un’ultima poetica danza. Il tutto non può che concludersi con l’ultima passeggiata mattutina del protagonista che sta per lasciare Berlino, nell’inverno del 1933:
Oggi il sole è sfolgorante; l’aria mite e calda. Sono uscito per la mia ultima passeggiata mattutina senza soprabito né cappello. Il sole brilla e Hitler è il padrone di questa città. Il sole brilla e dozzine di miei amici – i miei alunni della Scuola dei lavoratori, gli uomini e le donne che ho conosciuto all’I.A.H. – sono in prigione, forse morti […] Sorprendo la mia faccia nello specchio di una vetrina e mi accorgo inorridito che sorrido. Non si può fare a meno di sorridere con un tempo così bello […] No. Perfino ora non posso credere sul serio che tutto questo sia realmente accaduto.
È un sommesso, commovente commiato da una città che lui sa non sarà più la stessa e che – sebbene assediata dalla morte - non ha perso ancora il suo incanto.
[Agli amanti del cinema si ricorda che Addio a Berlino ha ispirato anche capolavori cinematografici come I am a camera di Henry Cornelius (1955) e Cabaret di Bob Fosse (1972), con Liza Minnelli]
Claudia Consoli
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