(Freedom)
di Jonathan Franzen
Einaudi, 2011 (2010)
pp. 622
Libertà è la parola che connota l’intera storia americana. Il più forte marcatore dell’identità e del credo di questa nazione. Libertà è diritto inalienabile dell’uomo, lo dissero e scrissero i costituenti di Filadelfia. È stata il sogno di ogni straniero che vi immigrava. Poi c’è stata la seconda guerra mondiale e la libertà è stato il valore in nome del quale combattere in Europa. Dopo il 1945 libertà è diventato uno schermo ideologico, dalla guerra fredda fino a legittimare con il Vietnam prima e l’Iraq ai giorni nostri anche guerre veramente sporche. La guerra al terrore dopo l’11 settembre non è stata chiamata Enduring Freedom? Quindi libertà sta assumendo connotati ambigui. I connotati di questo romanzo.
Come “Le correzioni”, anche “Libertà” è la storia di una famiglia della borghesia urbana, lungo il cammino che dallo splendore giunge al declino. Walter e Patty Berglund sono una giovane coppia apparentemente felice che arriva a Ramsey Hill come fossero pionieri di un nuovo progresso. Colti, educati, benpensanti e simpatici. Entrambi provengono però da famiglie nevrotiche e fuggono da adolescenze non proprio idilliache: lui rinchiuso in un motel fatiscente gestito dai genitori, lei stuprata a una festa e non difesa dai genitori perché il violentatore era il rampollo di una ricca famiglia che sponsorizzava l’elezione della madre a deputato dello Stato di New York.
Ramsey Hill è dunque la nuova frontiera e la possibilità di rinnovare il mito dell’America come terra di libertà «dove un figlio poteva ancora sentirsi speciale». Avevano però dimenticato che «niente disturba questa sensazione quanto la presenza di altri essere umani che si sentono speciali». In ogni caso il figlio arriva e si chiama Joey. Ma a 16 anni se ne a vivere con Connie, in apparenza remissiva, a casa di vicini volgari. E odiati dai Berglund che dopo Joey hanno una seconda figlia: Jessica.
Patty sprofonda nella depressione e nell’alcolismo e inizia una relazione clandestina con Richard Katz, amico di infanzia del marito e musicista rock. Un triangolo amoroso di cui la grande letteratura ci ha dato saggi splendidi, a cominciare da “Guerra e Pace” che Franzen non manca di citare. Walter, uomo integerrimo e corretto comincia invece a essere bollato dai giornali come «arrogante, tirannico ed eticamente compromesso». L’attrazione per la collaboratrice che lo segue nel suo impegno ecologico pare aprirgli le porte di una nuova vita lontana da Patty che nel frattempo è finita a vivere con le sorelle visto che la convivenza con Katz non è andata a buon fine. I destini separai dei genitori fanno il paio con quelli distanti dei figli stessi: Joey diventa un uomo d’affari di simpatie repubblicane, Jessica un’editrice di grande impegno civile ma di scarsi risultati. Si uniranno in un tentativo di ricongiungimento familiare.
Non è che Franzen sia spietato fino in fondo, però questo romanzo può diventare un classico: il tema è forte, ovvero la sfida quotidiana dell’uomo che ricerca un significato per la propria vita partendo però da premesse esistenziali instabili. Già non è facile condurre in porto questo viaggio individuale. In più ci si mette la società moderna, preda di angosce e fobie, che condiziona inevitabilmente le mosse. Perché non esistono, neppure in America, gli spazi sconfinati dove un gruppo di cow boy o di perseguitati religiosi poteva lanciarsi verso la febbre dell’oro quasi in solitudine. A ben vedere, latitano anche le utopie kennedyane. Ed è questo infittirsi che rende labile il confine fra la nostra vita e quella degli altri. Su questo confine siamo costretti a giocare e volendo preservare la nostra libertà non possiamo che imbrigliarla nell’ampio contesto che rende problematico capire dove arrivare. Le sfumature sono delicate, ma in queste ci sta pure la sofferenza.
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