Meno noto al grande pubblico, il Simenon di Le finestre di fronte, stupisce con la sua forza visionaria, l’intuizione, quel genio di scrittore che scava nell’ambientazione dei romanzi la psicologia dei personaggi, facendo dell’una il risvolto dell’altra.
Scritto nel 1932 a Marsilly e pubblicato l’anno successivo, il romanzo è una lucidissima testimonianza di come doveva apparire la prima Russia staliniana agli occhi di uno straniero.
In quegli anni la dittatura non aveva ancora mostrato il suo volto più oscuro all’opinione pubblica internazionale e sorprende che lo scrittore di Liegi abbia saputo così precocemente coglierne i tratti principali: l’ossessione del controllo poliziesco, la tristezza dell’omologazione, il terrore, lo spionaggio, il soffocamento di qualsiasi tentativo di rinnovamento sociale e culturale.
Adil bey è il nuovo console turco che arriva a Batum, sul Mar Nero. Lugubre, grigia, desolata, la città lo respinge, lo fa sentire estraneo in ogni suo luogo. Solo e fuori posto, Adil bey non trova conforto in coloro che lo circondano: i consoli italiani e persiani, la sua segretaria Sonia, i poveri cittadini che ogni giorno fanno la fila in ambasciata per parlare con lui. Le domande che il protagonista si pone non trovano risposte, attorno solo “significati dubbi e sfuggenti”.
Il mistero di Batum sta nelle parole sussurrate, negli incontri nascosti, negli strani comportamenti degli abitanti, nei volti tristi dei giovani che vestono di nero, si incontrano nei bar e nei giorni di riposo passeggiano mestamente vicino al mare.
Tutti sanno di essere osservati e basta poco ad Adil bey per avere la stessa sensazione.
Un uomo e una donna si affacciano ogni sera alla finestra del palazzo di fronte e guardano in direzione del suo appartamento. Difficile capire cosa cerchino, cosa sappiano.
Simenon, con l’esemplarità di una scrittura oggettiva, lucida e sottile come una lama di coltello, ci consegna una magistrale prova d’autore, un romanzo sul potere nascosto, sull’inganno, sull’angoscia della solitudine dell’individuo schiacciato negli ingranaggi del totalitarismo.
Il protagonista, costretto a restare in questa città di confine, viene avvelenato giorno dopo giorno dalla certezza di essere spiato, dalla paura di essere eliminato, di sparire come spariscono in tanti, in questa fredda Batum sul Mar Nero.
La morte, l’amore, il tradimento sono i principali ingredienti di questo libro dalle atmosfere noir, dove probabilmente è assente l’intenzione di un giudizio politico, ma la politica è cartina di tornasole per tutte quelle paure inconfessabili che albergano negli animi umani.
Edizione di riferimento: Georges Simenon, Le finestre di fronte (titolo originale: Les gens d’en face), traduzione di Paola Zallio Messori, Adelphi, 2012.
Non c’era quasi nessuno per le strade, non un negozio, non quel traffico che fa di una città una vera città.
Un tempo quei vicoli erano un fervore di vita, come Istanbul, come Samsun o Trebisonda, come tutte le grandi città orientali. Si vedevano ancora le botteghe, ma erano vuote, le imposte chiuse o i vetri rotti. Si leggevano cartelli sbiaditi dal sole, in russo ma anche in armeno, turco, georgiano ed ebraico.
Dov’erano gli spiedi di montone che giravano sfrigolando all’entrata dei ristoranti? E le incudini dei fabbri ferrai, i banchi dei trafficanti di monete?
Ma la gente dov’era, la gente vestita nelle fogge più disparate, che un tempo fermava i passanti offrendo la mercanzia?
Soltanto ombre scivolavano, lente e rassegnate, nel sole, oppure si scorgevano sagome stese sotto gli androni.
Batum, ormai, non era più che il porto, i pochi battelli stranieri raggruppati intorno agli oleodotti che laggiù, addossati alla montagna, portavano attraverso il Caucaso il petrolio di Baku. E anche la statua di Lenin il quale, benché a grandezza naturale, aveva tutta l’aria di un ometto qualunque. [43]
C’era una grande casa crivellata di finestre. Porte e finestre erano aperte. Ragazzi e ragazze sedevano sui davanzali, e all’interno si scorgevano ghirlande di carta, ritratti di Lenin e di Stalin, manifesti di propaganda.
Proprio da quella casa prorompeva la musica, mentre al pianterreno, in una stanza dai muri coperti di grafici, uomini in maniche di camicia ascoltavano un compagno che a ogni frase batteva il pugno sul tavolo.
Non solo per la musica la scena gli rammentò il funerale. C’era qualcosa che accomunava l’atteggiamento della gente, di quelli che seguivano la bara e di coloro che stavano affacciati alle finestre o ascoltavano l’oratore, qualcosa che Adil Bey, così pensava, mai sarebbe riuscito a capire […] Perché mai gli erano tutti così estranei, anche quelli che andavano a spasso facendo dietrofront ai piedi della statua di Lenin? [17-18]
Corse alla finestra. Cercò la finestra di fronte e individuò prima un punto lucente, quello di una sigaretta, poi una manica di camicia, un braccio col gomito piegato, la testa di un uomo e, vicinissima, la donna che aveva sciolto i capelli sulle spalle.
Il chiarore della luna s’infiltrava fin nell’ombra e oltre la coppia. Adil bey scorse il rettangolo bianco di un letto.
«Mi vedono» pensò. «Non possono non vedermi!» [22]
Questa volta John perse la pazienza:
«Lo vuole un consiglio? Non parli a nessuno di queste cose, mai. Ecco, guardi! Il cameriere che ci serve è uno di loro. E lo stesso vale per tutte le donne che vede qui. E l’usciere! E gli inservienti!» […] Non faccia domande di nessun tipo, capito? Se i pacchi le arrivano un po’ alleggeriti, non dica niente! Se di notte l’aggrediscono in strada per prenderle il portafogli, torni a casa come se niente fosse! Se qualcuno muore nel suo ufficio, aspetti che vengano a portarselo via! E si persuada che se il telefono non funziona è perché non deve funzionare». [61]
Un drappello di poliziotti a cavallo tornava dalla manifestazione. Percorreva al trotto la piccola via, che vibrava da cima a fondo sotto i colpi degli zoccoli. E poi marinai dal colletto blu, ragazze vestite di bianco, una vera e propria folla si riversava nel sole, verso il porto, una folla che Adil bey doveva fendere di sbieco per tornare al consolato a issare la bandiera sovietica. Ora la finestra di fronte era aperta […]
Si udiva ancora una fanfara per le vie, e quasi Adil bey non sentì lo squillo del telefono. Quando staccò, nessuno rispose dall’altro capo del filo. [94-95]
Che importava, dopo tutto? Bastava imitare gli altri, tutti gli altri, la gente in strada, negli uffici, e anche Kolin e la moglie: non fiatare! Ci si fa la propria tana. Ci si crea le proprie abitudini. Si arriva persino a non pensare più se non a sprazzi, in modo vago, come quando si sogna. [109]
A cura di Claudia Consoli
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