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Speciale #Camus100 - La Caduta

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La Caduta
di Albert Camus
Bompiani, 2001

8 €



Dopo che il re Davide l’aveva fatta grossa facendo morire Uria e unendosi a Betsabea, il profeta Natan gli racconta una storia che avrà un grandissimo valore nella vita del re d’Israele. In città c’è un uomo ricco e uno povero: il ricco possiede molto bestiame di vario taglio e il povero una sola piccola pecorella alla quale tiene tanto. Il ricco ha un ospite e invece di privarsi del proprio bestiame (sappiamo anche che aveva bestiame minuto) pretende a tutti i costi la pecorella del compaesano povero. Quando Davide sente una storia del genere non può fare a meno di adirarsi e di ordinare che quell'uomo venga messo a giudizio, anzi, egli stesso ne abbozza una pena salata. Ma Natan, al momento più opportuno, gli fa presente che quell'uomo è lui (Cfr 2 Samuele 12).

Natan non ha giudicato Davide: ha fatto in modo che lo facesse da solo. L’economia di salvezza biblica è altra cosa rispetto a quella della narrazione laica, soprattutto di un autore come Albert Camus, che ne Il mito di Sisifo (1942) faceva portare all'umanità una grande pietra sulla cima di una montagna, consapevoli di cosa ne sarebbe stato della pietra e di noi.
Meno citato rispetto a Lo straniero (1942) e La peste (1947), il breve racconto La caduta  del 1956 ha senza dubbio altrettanto alto valore all'interno dell’opera dell’autore-filosofo francese (nato in Algeria). Scritto in prima persona, è il lungo monologo del signor Jean-Baptiste Clamence, professione giudice-penitente, che racconta di sé, della sua vita e della sua professione a un avventore del Mexico-City, un bar nella periferia di Amsterdam. L’interlocutore ascolta e segue (anche fisicamente) il signor Clamance, e tutto ciò che dice (presumibilmente poco visto che Clamence è un fiume in piena) lo conosciamo solo attraverso il monologo del protagonista.
La prima domanda da porsi potrebbe essere se Camus è l’autore-dio che tutto sa e quindi ascolta e racconta, uno dei tanti avventori del bar (improbabile visto che ci sono scene che si svolgono altrove), il signor Clamence o il suo interlocutore, magari un uomo per bene la cui vita ha subito una incrinatura, una crepa, e sotto si è rivelato un cratere. Uno di quegli abissi che poco si addicono a uno come Jean-Baptiste Clamence che invece ama le vette.

Il nome del protagonista è un nome falso che ha messo insieme lui stesso e già di per sé è carico di significati. Il Giovanni Battista del Nuovo Testamento è colui che “prepara la strada”, colui che da solo “grida nel deserto”, e che da solo nel deserto vive e si nutre di locuste e miele selvatico: un penitente che la sa lunga sull’uomo e l’avvenire. Qualcuno a cui il protagonista de La caduta quindi si sente vicino. E poi la "clemenza", termine più laico di “grazia” e “misericordia” che appunto avrebbero forse reso il protagonista un presuntuoso e pretestuoso messaggero divino: molto più umanamente è invece un papa e un giudice-penitente. Inoltre, Clamence è molto attento a non parlare mai di “peccato” ma sempre di “giudizio” e di “innocenza”.

Uomo generoso e onesto, buono e caritatevole, Jean-Baptiste Clamence è un rinomato avvocato parigino apprezzato e stimato da tutti. Alcuni eventi e certo la sua professione lo portano a rivedere tutta la sua vita e l’esistenza stessa dell’umanità. Una risata e una ragazza che guarda la Senna da un ponte di Parigi  sono eventi scatenanti la riflessione dell’avvocato: della risata non comprende la provenienza e quindi la direzione, la ragazza si lascia cadere nel fiume poco dopo che Clamence ha attraversato il ponte. L’avvocato, bloccatosi per strada ad ascoltare l’urlo della disperata, se ne tornerà a casa sua impotente.
Quale era il valore, si chiede Clamence, dei suoi gesti onesti e benevoli? Erano realmente “puri”, erano gesti che venivano dal cuore, gratuiti? O, una volta svelati a sé stesso da lui stesso, si sono rivelati falsi, tentativi di formalizzare il suo desiderio di sopraffare? Non si realizzava anche in questo il suo desiderio “di star sopra”, di “ambire alle vette”? Più che amare gli altri non era forse amore per sé stesso vedere che gli altri lo ringraziavano e lo elogiavano per le sue buone azioni?
È nel momento in cui si rende conto della sua maschera, del suo non essere partecipe della vita degli altri nonostante apparentemente gli fosse vicino, nel percepire come tutto in realtà gli scivoli addosso, che Clamence inizia il suo percorso di giudice-penitente. Nella consapevolezza che invece tutti i suoi consimili sono sempre pronti a giudicare e mai a pentirsi: «La sola difesa è nella cattiveria. Allora per non essere giudicati tutti si affrettano a giudicare»[1]. Piuttosto, «Tutti vogliamo appellarci a qualcosa! Ognuno pretende a ogni costo di essere innocente, anche se per questo debba accusare il genere umano e il cielo»[2].

Le armi adottate da Clamence nella vita quotidiana non sono quelle della violenza e della sopraffazione fisica (per quanto sogni per giorni di picchiare un motociclista negligente incontrato a un incrocio: altro evento rivelatore) ma quelle della modestia, dell’umiltà e della virtù usate a fin di male: «[…] ho capito che la modestia mi aiutava a brillare, l’umiltà a vincere e la virtù a opprimere»[3]. Ciò perché usate per allontanare l’altro più che per avvicinarlo.
Inevitabilmente uno scavo umano di questo tipo – per quanto più o meno onestamente viene analizzato dai lettori come un’introspezione del borghese affermato e apprezzato che scoperchia la sua pentola di falsità – non può fare a meno di rimandarci alle Sacre Scritture: Clamence stesso lo fa, per negare Cristo (più che salvatore anche lui fu un peccatore, e quindi non un sacrificio la sua croce ma una penitenza consapevole) ma affermando il senso profondo del Vangelo. Più o meno consapevolmente, Clamence esalta i fondamenti cristiani espressi ad esempio nel Discorso della Montagna (Mt 5,1-7  e Lc 6,17-49) e sulla gratuità e generosità del gesto («non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» cfr. Mt 6,1-4).
In questa operazione di scavo l’ipocrisia di Clamence non viene messa a nudo come nella vicenda di Davide e Natan attraverso l’auto-attribuzione della colpa per il proprio crimine attraverso un giudizio espresso osservando la colpa di qualcun altro (il non meglio nominato “ricco”), ma attraverso un più lungo processo durante il quale il protagonista comprende il rapporto tra sé e l’altro e ciò lo porta a rivedere tutta la sua vita, fare cambiamenti drastici (mollare il lavoro) poiché nella propria “economia di salvezza” non basta/serve pentirsi, ma è necessario fare penitenza. Non si tratta di digiuni e preghiere – come nel caso di Davide – ma di un penitenza continua e pubblica (dovremmo però chiederci se non sia pubblicizzata, perché allora dovrebbe pentirsene a sua volta) che diventa una vera professione. Il suo altruismo diventa quindi un pentirsi di fronte al'altro e aiutarlo nella conoscenza e consapevolezza delle proprie azioni sociali.

Il peccato – concetto non presente nelle parole di Clamence – genetico dell’uomo sembrerebbe quindi quello del giudizio inevitabile: non quello che viene da Dio, ma quello proprio dell’uomo verso il suo simile. Qualora si passasse invece al giudizio di sé stessi, si dovrebbe per forza finire col fare penitenza.
Il pentimento di Clamence innesca un meccanicismo razionalistico che considera la penitenza come necessaria per poter continuare a giudicare e quindi a vivere. Nelle ultime pagine, un Clamence febbricitante, svela la sua “economia di salvezza”: «La sentenza che uno pronuncia sugli altri, finisce col rimbalzargli dritto in faccia, non senza danno. E allora? dice lei … Ebbene, ecco l’alzata d’ingegno. Ho scoperto che in attesa dell’avvento dei padroni e delle loro verghe, dovevamo, come Copernico, invertire il ragionamento per trionfare. Visto che non si potevano condannare gli altri senza giudicare immediatamente se stessi, bisognava incolpare sé stessi per aver diritto di giudicare gli altri. visto che ogni giudice prima o poi finisce penitente, bisognava fa la strada in senso inverso, esercitare il mestiere di penitente per poter finire giudice»[4].

Il monologo, come comprensibile, è molto denso e rispetta un impianto narrativo più rigoroso di quanto possa sembrare alla prima lettura. Aspetti fondanti della vita, come la professione, il rapporto con le donne, le relazioni con gli altri, vengono sistematicamente affrontati e sviscerati alternativamente e in relazione fra loro creando un’analisi di sé coesa e strutturata. Anche alla fine del racconto, quando un Clamence allettato e delirante per la febbre alta continua parlare con il suo solito interlocutore – un avvocato parigino che forse è sé stesso o noi lettori – non smette di rimandare il suo discorso a sé stesso e tornare a spiegare la sua professione attuale dal momento in cui lasciò quella stimata di avvocato. Ancora una volta la circolarità sistemica del ribadire la sua penitenza è l’unico modo che gli permette di giudicar(si)e e poter continuare a vivere aspettando la morte.




[1] Albert Camus, Opere, Milano, Bompiani, p. 1066.
[2] Ibidem, p. 1067.
[3] Ibidem, p. 1069.
[4] Ibidem, p. 1099.