Il mito di Sisifo
di Albert Camus
Ed. Bompiani, 2012
Prima Edizione, 1942
pp. 176
cartaceo € 9
Prima Edizione, 1942
pp. 176
cartaceo € 9
A cento anni dalla nascita, avvenuta il 7 novembre a Mondovi in
Algeria, odierna Dréan (nei pressi di Annaba) le commemorazioni di Albert Camus
si sprecano in tutto il mondo, coinvolgendo perfino la Uefa, essendo stato in
gioventù, nonostante i problemi di salute, portiere del “Racing Universitaire
d’Alger all'inizio degli anni '30” (dirà Camus a proposito "Tutto quello
che so sulla moralità e sugli obblighi degli uomini lo devo al calcio").
Quotidiani e riviste si sono affrettati, sfruttando l’onda di
una sempre maggiore fama e consenso attorno all’autore, a pubblicare monografie
e numeri speciali (tra le più interessanti quelli di “Le Point” e “Philosophie
Magazine”). Google in Francia (Google.fr) gli ha dedicato perfino un doodle ovvero uno dei quotidiani loghi
utilizzati per commemorare eventi mondiali particolarmente significativi.
In Italia, “Micromega”,
la nota rivista culturale, ha offerto un ebook gratuito dal titolo "Camus filosofo dell’avvenire", dove
è possibile leggere l’intervista della figlia Catherine ("Mio padre,
solitarie, solidaire") e il saggio di Paolo Flores d’Arcais su "Albert Camus filosofo del finito".
Inoltre, da segnalare in mezzo a diverse iniziative, un’expo
documentaria presso la Biblioteca Nazionale di Potenza e diverse
rappresentazioni teatrali (ricordiamo che Camus scrisse alcuni importanti testi
per il teatro, tra cui Caligola).
Scrittori come André Brink, Yasmina Khadra e perfino il
premio Nobel Imre Kertész hanno ammesso di essersi ispirati alla sua opera; filosofi
del calibro di Michel Onfray e Alain Finkielkraut hanno voluto omaggiarlo
dedicandogli dei saggi.
Albert Camus dunque oggi sempre più osannato da intellettuali
o da semplici lettori.
Eppure non è sempre stato così, in vita per esempio è stato osteggiato
(“solitario” lo definisce appunto la figlia Catherine, nonostante avesse alcuni
amici intellettuali di una certa fama come René Char o Louis Guilloux) dal milieu parigino che probabilmente non l’aveva
mai accettato veramente a causa delle sue umili origini.
Le polemiche maggiori sono nate proprio per le commemorazioni,
in particolare in Francia e in Algeria.
Per il cinquantenario della sua morte, nel 2010, l’Algeria rifiutò
e osteggiò la sua celebrazione, nonostante il sollecito di alcuni intellettuali
francesi; in Francia la mostra ad Aix-en-Provence (nelle vicinanze della casa
che comprò con i soldi del premio Nobel a Lourmarin), che la figlia Catherine
avrebbe voluto dedicargli, fu duramente ostacolata dall’amministrazione locale appartenente
alla Destra (Camus per un periodo fu comunista e antinazista ma fu anche
antisovietico; politicamente si può considerarlo come socialista anarchico,
ammiratore di Bakunin).
Per non dire le altre e più aspre polemiche per il corrente centenario
della nascita, tanto che l’ostracismo e le pressioni subite (anche politiche) hanno
costretto il filosofo francese Michel
Onfray, padrino di quella che doveva essere una (pomposa?) commemorazione
nazionale, a rinunciare clamorosamente.
Albert Camus divide ancora oggi, almeno in Algeria e in Francia.
Come mai tanta ambivalenza? Cosa c’è dietro tali
atteggiamenti, insoliti nel campo della cultura?
Camus in Algeria è considerato non solo uno “straniero” ma un
traditore.
Tutto nasce dalla lotta per l’indipendenza algerina, dal 1954
in poi. Gli algerini riuscirono a liberarsi dal lungo colonialismo francese soltanto
nel 1962, quando De Gaulle riconobbe finalmente l’indipendenza. I pieds-noirs ovvero i francesi che per
generazioni erano vissuti in Algeria, furono costretti così a ritornare nella
madrepatria colonizzatrice, abbandonando terra, case, possedimenti, averi.
Un milione e mezzo di francesi-algerini abbandonò quanto di
più caro aveva accumulato, per ritornarsene in Francia, una patria straniera, che non li accolse affatto con
benevolenza, soprattutto la Sinistra politica (amara e famosa l’accoglienza di
Marsiglia, dove il sindaco di sinistra, li invitava ad andare altrove) perché
erano considerati colonialisti e perfino razzisti, di destra.
Camus rifiutò di sostenere gli insorti a favore
dell’indipendenza algerina.
La giustificazione è semplice e fa parte dell’essenza del pensiero
di Camus: alla dottrina, all’ideologia deve sempre prevalere l’uomo (concetto
che poi sarà la base delle divergenze di idee, fino alla rottura dell’amicizia,
con Jean-Paul Sartre, padre dell’esistenzialismo).
In questo caso specifico, Camus aveva avuto parole dure contro
la politica repressiva dell’amministrazione coloniale francese da un lato e
dall’altro contro l’eccesso terroristico del FNL algerino, così da attirarsi le
ire di entrambi i fronti.
Preferiva una soluzione che implicasse la convivenza tra
arabi e pieds-noirs, fallendo però politicamente
perché la miseria umana e gli odi atavici non lo avrebbero mai permesso.
In generale, Camus di fronte alla visione di un’Algeria in
guerra preferiva quella dell’infanzia delle spiagge sabbiose e del “sole invincibile”, sempre presente nelle
sue opere.
Il filosofo francese Michel Onfray (non a caso come Camus di umili
origini) che ha scritto nel 2012 un libro sul Nostro (“ L’Ordre libertaire. La vie philosophique d’Albert Camus”,
Flammarion, da pochissimo tradotto da Ponte delle Grazie (clicca qui) afferma che:
“Camus incarna la tradizione del pensiero libero, indipendente, autonomo, padrone di sé, un uomo che non dipende dalla tribù, che non si costruisce guardandosi nello specchio della storia, che non deve niente a nessuno, che si è costruito da solo, senza i vantaggi degli ascensori tribali parigini” (estratto dall’intervista di Aliocha Wald Lasowki a Michel Onfray pubblicata sul n. 520 di giugno 2012 dal Magazine Littéraire, tradotto da Paolo Mantioni il 18/08/2012 per Critica Letteraria: lo leggi qui).
A parte diversi romanzi di successo ormai mondiale (negli
Stati Uniti, in Inghilterra, in Giappone in
primis) come Lo straniero e La peste, Camus è riconosciuto anche
come filosofo, seppure non sistematico, per due saggi, Il mito di Sisifo e L’uomo in
rivolta.
Il primo – che ebbe un certo successo nell’ambiente
intellettuale parigino - (scritto nel 1942) secondo André Comte-Sponville, è
paragonabile, se non superiore, alla “Critica della ragione pura” di Emmanuel
Kant.
Indipendentemente da questi giudizi soggettivi di difficile
se non incomprensibile validità, Il mito
di Sisifo è sicuramente un saggio filosofico atipico, con uno stile molto denso,
a tratti aforistico e pieno di rimandi o citazioni (rigorosamente senza fonte
bibliografica: quando conta la sostanza, la formalità passa in secondo piano).
L’incipit è stilisticamente fulminante: il solo vero problema
filosofico è il suicidio, cioè “giudicare se la vita valga o non valga la pena
di essere vissuta” (pag.7). Tutto il resto viene dopo.
E’ un gioco mortale, avverte, perché “cominciare a pensare è
cominciare ad essere minati” (pag.8); un gioco che “conduce dalla lucidità di
fronte all’esistenza all’evasione fuori della luce”.
Tra negare un senso alla vita e dichiarare che non valga la
pena di vivere tuttavia non c’è una vera e propria alternativa. Capita spesso
infatti che chi si suicida abbia una opinione sicura sul senso della vita.
In questo divorzio tra l’uomo e la vita c’è ciò che Camus
chiama il senso dell’assurdo, “il confronto dell’uomo con la propria oscurità”.
Il suicidio è un’ammissione: “uccidersi è confessare:
confessare che si è superati dalla vita o che non la si è compresa” (pag. 9).
Se la vita non è un passaggio verso altro, non è un mezzo per
raggiungere uno scopo, allora non può che essere ancora più densa e piena (un atteggiamento
che lo pone tra gli esistenzialisti atei, in una posizione molto vicina a
quella di Jean-Paul Sartre).
Con Aristotele, Montaigne e Spinoza, Camus conclude che
l’esistenza in fondo è degna di essere vissuta.
La lucidità - questo
concetto che stava a cuore a un altro parigino d’importazione, contemporaneo di
Camus, Emil Cioran - è la radice
dell’assurdo.
“Dopo il risveglio”, dice Camus, “viene, col tempo, la conseguenza: suicidio o ristabilimento”. Viviamo in una continuità quotidiana ripetitiva e alienante, dove ci alziamo la mattina, prendiamo il tram, ritorniamo la sera, poi all’improvviso, arriva un momento di lucidità e tutto cambia e “comincia in una stanchezza colorata di stupore” (pag.16).
Del resto, del mito di Sisifo - costretto a trasportare un
macigno per poi vederlo rotolare giù e riprenderlo nuovamente e infinitamente -
a Camus interessa la ridiscesa “verso il tormento”: “se questo mito è tragico è
perché il suo eroe è cosciente”.
Nel suo cammino - che è il cammino di tutti gli uomini - vi è
un destino personale, fatto di dolore ma anche di gioia perché “non v’è sole
senza ombra, e bisogna conoscere la notte”. Il concetto del Sisifo felice (“bisogna
immaginare Sisifo felice”) conclusivo del saggio è emblematico e sarà poi
sviluppato sia nel romanzo La peste sia
nel L’uomo in rivolta.
Una via di fuga diventa il domani ovvero il fare affidamento
al divenire, ma non basta perché il mondo ci sfugge e la nausea che ne proviamo
è esattamente il senso dell’assurdo.
La solidarietà e la collaborazione tra gli uomini - come
quella che elargirà Bernard Rieux, medico della città di Orano, infestata dalla
peste - è la rivolta che dà essenza
all’uomo (“mi rivolto dunque noi siamo”,
scrive parafrasando il celebre motto di Cartesio).
Tutto ci dice che il mondo è assurdo, “la nostra intelligenza
e anche il suo contrario, la ragione cieca”. Camus vorrebbe che fosse tutto
chiaro ma così non è, non può essere, anzi il senso dell’assurdo è proprio
questa contrapposizione tra l’irrazionalità con il desiderio di chiarezza: “Finché
lo spirito tace nel mondo immobile delle proprie speranze, tutto si riflette e
prende posto nell’unità della sua nostalgia; ma al primo movimento, tale mondo
si fende e rovina: infiniti, lucidi lampeggiamenti si offrono alla conoscenza”
(pag.21).
Il tema dell’assurdo Camus lo riscontra anche in diversi
autori dal pensiero irrazionale e religioso (“come non sentire la profonda
parentela di questi spiriti?”) quali Jaspers, Heidegger, Kiekergaard, Chestov, Husserl,
Scheler.
Tutti concordano che in fondo “nulla è chiaro, che tutto è
caos” e che “l’assurdo nasce dal confronto fra il richiamo umano e il silenzio
irragionevole del mondo” (pag.28) cioè da una lotta tra ciò che siamo e il non-senso
del mondo: “il divorzio fra lo spirito che desidera e il mondo che delude”, una
nostalgia dell’unità impossibile.
Tuttavia ognuno cerca una fuga o una soluzione da questo
assurdo.
Per Chestov, l’assurdo nasce dall’impossibilità della ragione
di spiegare tutto: là dove la ragione è vana nasce Dio come possibile
soluzione. L’assurdo cioè per Chestov è anche accettazione dello stesso
(mentre, dice Camus - che era un ateo - per uno spirito veramente assurdo,
dietro la ragione non vi è nulla). Kierkegaard invece non si ferma a questa
accettazione dell’assurdo ma “fa il salto”, vuole guarire ovvero salvarsi.
Anche il teatro (e gli attori), l’arte e il romanzo non
rappresentano dei rimedi all’assurdo ma sono essi stessi fenomeni dell’assurdo.
Conclude allora Camus:
l’assurdo non va superato, ma affrontato attivamente.
L’attenzione è quindi
posta verso l’uomo nuovo, solidale e disincantato: non a caso nel saggio c’è
attenzione, quasi ammirazione, verso la tesi di uno dei personaggi più
controversi delle opere di Dostoevskji, Kirillov, protagonista de I Demoni: “A chi sarà indifferente
vivere o non vivere, quello sarà l’uomo nuovo!” che ammette il suicidio logico,
lucido:
“Se Dio esiste, tutto
dipende da lui […] se non esiste tutto dipende da noi. Per Kirillov, come per
Nietzsche, uccidere Dio è divenire dio”.
La libertà e l’arbitrio, non ammettendo dio, risiedono nell’assurdo.
Le conseguenze che Camus trae da ciò sono quindi “la rivolta,
la libertà e la passione” e tutto ciò porta a un rifiuto netto ma comunque
sofferto o mai scontato del suicidio.
Essere liberi dal domani, non avere speranze o obiettivi non
porta per Camus alla disperazione, anzi per lui bisogna bruciare l’esistenza: non è un caso che dedica un intero capitolo a
Don Giovanni che fa della seduzione, per il solo fatto dell’esserne cosciente,
un assurdo, mettendo in scena “un’etica della quantità”.
L’assurdità, di cui aveva tanto riflettuto e scritto, si
tradurrà drammaticamente, per uno straordinario caso del destino, anche nella
sua fine: con una Facel-Vega, un’auto sportiva, assieme a Michel Gallimard
(nipote del celebre editore), si schianterà contro un albero nel 1960; in tasca
aveva (la figlia Catherine ha confermato l’episodio) un biglietto ferroviario,
probabilmente un cambiamento inatteso e improvviso che pose tragicamente fine
alla sua esistenza.
Albert Camus scriveva sui suoi Taccuini: “Chiedo una cosa sola, ed è una richiesta umile, benché
io sappia che è esorbitante: esser letto con attenzione”.
La lettura di Camus, quella dei saggi in particolare, non è
una lettura scorrevole.
Non perché siano argomenti di difficile comprensione ma solo
perché costringe a riflettere, a fermarsi, a rileggere.
La lettura di Camus è lo specchio di ciò che era il suo
pensiero: qualcosa di denso e filosofico.
“Esser letto con attenzione” è quindi il minimo che poteva chiedere,
umilmente e disperatamente, al mondo.
Giuseppe Savarino
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