di Antonio Moresco
"Le Libellule" Mondadori, 2014
pp. 160
€ 12,00
Le persone si illudono e poi si deludono, si abbandonano, si rimpiccioliscono, si riciclano, accettano di vivere rimpicciolite e riciclate. Si feriscono, si fanno a pezzi, si uccidono, ma poi - come dicono loro - continuano a stimarsi, a restare amiche, cioè si uccidono due volte, e credono così di essere persone evolute, civili, credono che sia questa la civiltà, la società in cui si riesce a vivere. La società... Noi lo sappiamo bene com'è fatta la società, l'abbiamo conosciuta fin troppo bene, per questo le abbiamo voltato le spalle. (p. 77)
Chi ha detto che le fiabe sono solo per bambini? E soprattutto, che nelle fiabe non possa riversarsi il sapore dolceamaro di una quotidianità scartavetrata? L'ultimo romanzo di Moresco sfrutta la libertà della fiaba per giocare con i piani temporali a suo piacimento e sovvertire le regole elementari del cosmo, pur coprendosi di un inaspettato e crudo realismo. Non ci sono principesse né draghi; ma due protagonisti opposti, che si preparano (e il lettore scoprirà via via come) a scambiarsi i ruoli e i destini: un vecchio che vive nella realtà degradata della strada, e una bellissima ragazza dall'aria pietosa e accogliente:
Lui non vedeva gli altri e gli altri non vedevano lui. Quella ragazza invece lo guardava, certe volte rallentava persino la sua andatura per poterlo vedere più a lungo mentre passava, osservava con attenzione i suoi lineamenti sotto quella maschera di sporcizia e di polvere, il suo volto circondato da lunghi capelli rigidi come stracci induriti e da una lunga barba. (p. 18)
Ma è questa una storia di misericordia? Ce lo chiediamo, quando la ragazza accoglie il vecchio nella sua casa (anzi, una casina, dove tutto è in miniatura come nelle fiabe tradizionali), lo lava, lo accudisce, lo sfama e... se ne innamora! E qui sta tutta la fiaba del romanzo: sembra un lieto fine, ma non siamo ancora a metà del romanzo. A poche pagine dalla felicità e dalla reintegrazione del vecchio nella società, un nuovo precipizio: l'amore, sembra suggerire Moresco, è transitorio, e sempre mosso dall'egoismo. Allora, un personaggio integro ma fragilissimo come il vecchio, non può che ripiombare nel nero della sporcizia e nel freddo dell'addiaccio: cosa lo aspetta?
Il messaggio va oltre il messaggio letterale, e investe un altro tema caro a Moresco, presentissimo anche nel libro precedente, La lucina, e trattato con la stessa levità - la levità che ti si infila sottopelle e ti lascia a pensare prima di addormentarti: cosa accade e dove si va dopo la morte? Come Moresco ha commentato di recente a Che tempo che fa, lo scrittore deve farsi coraggio e trattare anche temi capitali, che fanno paura all'uomo, e osare andare con la narrazione dove la razionalità non permette. E, vorremmo aggiungere qui, lo fa grazie alla creatività, che di certo non manca a Moresco. Perché l'impressione iniziale è che la storia sia semplice ed essenziale, ed ecco che cambia rotta e sorprende. Attecchisce nella memoria, e cresce, che lo vogliamo o no, e non sempre culla, spesso schiaffeggia perché ci costringe ad aprire gli occhi su realtà gravissime (la vita di strada, come in un bell'articolo di Moresco su Vanity Fair Italia) e su altre che logorano quotidianamente (i rapporti umani, la società civile, i pregiudizi e le aspettative altissime e impietose).
Allora, la letteratura offre una fuga dalle regole e anche le seconde chance che la vita preclude. Come la possibilità di sognare ancora un po', e farsi trasportare dove l'unica regola è credere alla fiaba, nonostante tutto.
GMGhioni
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