L’armata dei sonnambuli
di Wu Ming
Einaudi, 2014
pp. 792
La prima cosa che va detta di questa nuova avventura letteraria del collettivo è: comunque complimenti. Ci vuole un grande sforzo, un lavoro importante di ricerca, di documentazione, di frequentazione di archivi per imbastire un romanzo di tale portata e qualità. Questo sforzo va riconosciuto, ne vanno esaltati ambizione e risultato.
Il problema semmai è che i livelli di “Q” non sono raggiunti. “Q” resta quel capolavoro d’esordio affascinante e perfetto che continua a perseguitarmi. Ricordiamolo: ispirandosi alla vicenda dell’oscuro predicatore anabattista Tiziano, i bolognesi Wu Ming, che all’epoca si firmavano Luther Blisset, costruirono una storia dove Tiziano assume questo nome dopo essere stato un anonimo studente tedesco di Wittenberg, un discepolo di Muentzer, Gert dal Pozzo protagonista dell’epopea anabattista, membro di una setta di Anversa capace di ordire una colossale truffa ai danni dei padroni d’Europa, i banchieri Fugger, e il tenutario di un bordello di Venezia, in stretto contatto con librai, editori e finanzieri sefarditi che diffondevano in segreto “Il Beneficio di Cristo”, opera che all’epoca del concilio di Trento prospettava una pacificazione con i protestanti.
Quella lettera chi identificava? Q era Qoelet, la spia del cardinale Carafa che provocava, attraverso sotterfugi e tradimenti, le sconfitte del riformatore religioso. E alla fine Q e Tiziano sono faccia a faccia specchiandosi in un raffinato duello di parole e suggestioni scevro da ogni violenza. La forza di “Q” è proprio nella linearità di questo confronto, negli estremi che lo incarnano, i due personaggi attorno ai quali ruota tutto il resto.
Come possiamo capire da questi accenni, c’è in “Q” una teatralità grazie alla quale Gert e Qoelet indossano maschere a seconda del palcoscenico in cui sono chiamati dalla storia. Nella struttura del romanzo, questa impostazione fortemente relazionale, coinvolge e fa crescere nel lettore il gusto dello scontro, del duello, della dicotomia.
“L’armata dei sonnambuli” allarga il campo: non solo teatro o due protagonisti a fungere da “stelle fisse”. Possiamo subito farne una questione di gusti: personalmente preferisco un impatto emotivo che corre nella sfida, ravvicinata o a distanza non importa, tra A e B. Altri possono preferire questo alfabeto di esistenze dove si riduce semmai il proscenio: Parigi, salvo una divagazione in Alvernia, peraltro efficace, un cuore di tenebra dove si prepara il terreno all’ingresso di un’altra suggestione.
Contenuto è anche il tempo della rappresentazione: due anni, dal 21 gennaio 1793, giorno della decapitazione di Luigi XVI, al tentativo di liberare dalla prigione del Tempio il suo figlioletto: 21 gennaio 1795. Sullo sfondo, meno evidente tuttavia, c’è sempre il tentativo di squarciare il velo su una parte della storia completamente, e volutamente, dimenticata.
Non c’è il Cinquecento italiano visto dalla parte degli anabattisti o l’indipendenza americana vista dalla parte degli irochesi, come in “Manituana”. Certo, gli ultimi o i dimenticati svolgono ruoli essenziali: i sanculotti del quartiere di Saint’Antoine, le donne amazzoni rivoluzionarie o personaggi chiave come Orphée d’Amblanc e l’attore di teatro italiano Leonida Modonesi che è la maschera per eccellenza del libro, ovvero Scaramouche.
Però, al teatro si affianca il desiderio di restituire al corpo della Storia, intesa in senso hegeliano come marcia e compimento dello Spirito, la potenza di una metafora, ovvero l’universo mentale collettivo, quello che caratterizza le società moderne e che è foriero di pericoli. Lo strumento attraverso il quale i Wu Ming vogliono parlarci delle potenziali degenerazioni è il mesmerismo, la discussa scienza diffusa nel Settecento fondata da Franz Anton Mesmer. Sappiamo che a pronunciare Settecento, oltre alla Rivoluzione Francese, viene in mente pure l’Illuminismo con tutto quanto ne consegue: tolleranza, utopie, contratto sociale, enciclopedismo, deismo, fiducia nell’uomo e fiducia nel fatto che il suo agire politico si basi su scelte razionali compiute liberamente.
Ebbene, per Mesmer, poco più di un ciarlatano per i suoi contemporanei, questa dell’Illuminismo non è che pura e ingenua illusione. Corrente, magnetismo, fluido, in una parola ipnoterapia, possono concorrere alla formazione di una catena elettrica in grado di trasformare tanti singoli individui in una… armata di sonnambuli dove sarà l’induzione prodotta da un leader a determinare comportamenti e indirizzi. Fino, potenzialmente, a gesti estremi, come il rogo collettivo indotto da uno degli artefici di queste tecniche, il cittadino Auguste Laplace, che si è fatto volontariamente internare nel manicomio di Bicêtre, o cavaliere d’Yvers, in pagine che a me hanno riportato alla mente, non a caso, le immagini trasmesse da certi documentari sul nazismo: libri che bruciano o parate notturne con migliaia di fiaccole e svastiche al vento mentre il führer arringa dal palco.
Qui sta il merito del libro: l’essere riuscito a trasformare la trama in un confronto tra due “personaggi” immaginifici, simbolici: il teatro, che è il regno della recitazione e dunque della libertà, e il potere di condizionamento. O ancora: un confronto tra due teatralità, perché visto che siamo chiamati comunque a recitare, possiamo farlo come Scaramouche, generoso e confusamente ribelle, ma singolo al cospetto degli eventi, o come i suoi nemici giurati, la gioventù dorata dei muschiatini, niente altro che una massa di attori mesmerizzati.
Uno dei protagonisti, almeno all’inizio, della stessa Rivoluzione Francese, l’abate Sieyès scrisse “Che cos’è il Terzo Stato?” pervaso dalla convinzione della centralità dell’ordine sociale che non si radica in una tradizione precedente ma si configura come una frattura rispetto al passato. Questa tradizione, questo passato, dove invece erano altri i presupposti, sono però sempre in agguato, pronti a prendersi una rivincita, magari non con gli strumenti della coercizione fisica ma con quelli della coercizione mentale.
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