Pietroburgo
Adelphi
Edizioni, 2014
pp. 384
euro 22
Questo è un romanzo che vermina dalle
brume della Pietrogrado del 1905, alias Pietroburgo, futura Leningrado ed ora,
ai giorni nostri, nuovamente San Pietroburgo. Una storia marcia e virata al “giallo-verde acido dei palazzi sulle
prospettive”, dove Andrej Belyj, “il
più razionale degli scrittori surrealisti russi”, mette in piedi il suo
personale Puppentheater. E' una sorta di balletto meccanico à la Léger, in cui un figlio, Nikolaj Apollonovič,
giovane fatuo imbevuto di idealismo kantiano e torbidi sogni rivoluzionari, ed
un padre, Apollon Apollonovič, idolo meschino e abietto della burocrazia
imperiale, si perdono tra le nebbie di Pietroburgo, espressione di forze
opposte della tangibile elettricità che scorre tra le isole e le vie sudice,
fino poi ad incontrarsi/scontrarsi in
una tenzone che non ha nulla di epico ma tutto di tragicomico, con un fondale
di parricidio che ha perduto ormai
ogni nobiltà, anche oscura, dei tempi andati.
La storia è popolata da figure
enigmatiche e idiosincratiche, sorta di personaggi da Narrenspiel:: Dudkin, terrifico terrorista nichilista, avvinazzato,
sempre in preda ad allucinazioni anti-mongoliche, Lippacenko, viscido
provocatore e spia doppiogiochista, grasso ed unto “come un uovo a cui è stato tolto il guscio”, Anna Petrovna, madre
sciagurata e avviluppata da passioni sensuali, ritrovata dal figlio e dal padre
dopo anni di vagabondaggio, ricolma di adipe e di verità non dette e Sof’ja
Petrovna Lichutina, bambolina di porcellana giapponese, esile figura di geisha inverosimile, talmente
inconsistente da apparire un rantolo di nebbia insinuatasi nei saloni
pietroburghesi.
La vicenda si sviluppa come in un racconto “del sottosuolo”, nel senso dostoevskiano
della parola, cioè come racconto sia di quanto accade nei reconditi ambienti
che i russi chiamano podpol’e, ovvero
quella buca/bugigattolo/cantina, al di sotto della casa “ufficiale”, in cui si è soliti scaricare i rifiuti e le cose da
"da non far vedere in superficie" (compresi cadaveri e oggetti compromettenti), sia nel senso dello
spazio della mente umana che viene occupato da sogni chimerici e dai mostri del
subconscio che crescono nelle notti illuminate dai tumulti popolari, seguiti
alla sconfitta nella guerra russo-giapponese del 1905.
Pietroburgo! Pietroburgo!Avvolgendoti di nebbia, tu mi hai perseguitato con un giuoco cerebrale. Tormentatrice crudele ed irrequieto fantasma! Per anni tu mi hai aggredito: io fuggivo sulle prospettive terribili, per entrar d’un balzo su questo ponte corrusco…
È una città, la Pietroburgo di Belyj,
vista in senso geometrico, ovvero una città che è risultato del cozzare tra due
cerchi in un sol punto: il primo cerchio, cerchio bianco, formato dagli
opulenti palazzi delle prospettive, abitati da signori, ufficiali, burocrati e
aristocratici, e dal secondo cerchio, cerchio nero, composto dalle isole che
circondano la città e dai reconditi vicoli che la rendono “fetida Palmira del Nord”, patria di ladri, assassini, meretrici e
spie. I due cerchi, quello bianco e scintillante e quello nero e grumoso, si
incontrano in un punto, che è insieme punto spaziale e punto metafisico, punto sulla cartina
geografica (cioè Pietroburgo) e punto nella mente umana (la coscienza di Nikolaj
e/o di Apollon Apollonovič). Quando il punto geografico diviene punto mentale,
ovvero nei frequenti “sogni reali”
del protagonisti, il lettore assiste ad una sorta di enorme rigonfiamento delle
speculazioni e delle riflessioni, le quali prendono fattezze enormi, si
dilatano e divengono non soltanto più reali del reale, ma si traducono nell’unica
forma di realtà, con una forza d’impatto talmente ingente da “poter svellere gli anelli di Saturno”.
Gli intagli di prosa lirica, vibrante, ricca
nell’originale russo di giochi fonetici (tutti i nomi dei personaggi, de facto, sono una sorta di partitura
musical-metrica), rendono questo libro una “katabasi
a cielo aperto”, laddove il padre e il figlio, nei loro monologhi interiori
che si tramutano in urla esteriori, ci mostrano la società russa (ma anche
quella occidentale in senso lato) nel momento del collasso, della sua crisi,
della “decadenza dei romani”. Perché tra
le vie zigzaganti e le prospettive regolari si annida il “pericolo giallo”: dopo che i giapponesi hanno sconfitto i russi in
guerra, la paura di una nuova Orda d’Oro
che dalle steppe mongoliche si sarebbe potuta riversare in Europa, era un pericolo sentito realisticamente dall’intellighenzia
russa, anche se forse per noi questo può apparire quasi impensabile. In Pietroburgo
le ansie e le paure in questo senso, ne sono parte integrante. Recita un
proverbio russo “se gratti un russo,
avrai un tartaro”. E la famiglia Ableuchov, famiglia dalla quale provengono
i due Apollonovic, era appunto questo: una nobile famiglia russa che aveva per
antenato, come recita il primo capitolo del romanzo, un emiro di origine
kazak-kirghisa: gratta un Ableuchov, avrai un tartaro.
In mezzo a queste tensioni e paure, si
agitano i terroristi nichilisti, come e di più che ne I Demoni di Dostoevskij. Dudkin,
campione del terrorista nicciano, serpeggia e fiammeggia immerso nelle sue
tremebonde allucinazioni, consigliando Nikolaj Apollonovič di fare fuori l’abietto
padre per mezzo di una bomba, misero oggetto, “non più grande di una scatoletta per sardine”. La bomba occupa uno
spazio importante nell’economia della storia e come per i monologhi interiori,
anch’essa si dilata nella psiche e nello spazio, quasi come se il lettore
potesse sentire il fragore di un’esplosione interplanetaria, che non spazzi via
solo il senatore Ableuchov, ma anche tutta quanta Pietroburgo, con il suo Cavaliere di Bronzo, la stanca
aristocrazia, le prostitute malaticce degli angoli più bui, fino all’Europa ed
al Mondo intero.
Una scatola di sardine dal contenuto terribile! In lui s’accese una vita non percepibile dall’intelletto; e le lancette delle ore e dei minuti presero a strisciare; e l’irrequieto capello dei secondi, saltellando in cerchio si avviò all’attimo in cui… il contenuto terribile della scatola di sardine avrebbe cominciato a dilatarsi e la scatola sarebbe andata in frantumi…Ispide volute di fumo si sarebbero impetuosamente snodate nell’aria, allungando la coda sopra la Neva.
Una bomba, non più grossa di una scatola
di sardine, come punto di fine del vecchio mondo e di inizio di uno nuovo? No,
non proprio. Andrej Belyj è molto più raffinato e utilizza la bomba come una
specie di MacGuffin di Alfred Hitchcock, ovvero un oggetto messo lì
apparentemente per caso, ma che riveste un grande significato: la bomba
rappresenta come, all’inizio del nuovo secolo, solo la razionalità può fare
sopravvivere la civiltà occidentale, che altrimenti sarà destinata a perire
sotto i colpi dell’irrazionalismo che viene là da dove nasce il sole. Perché in
Pietroburgo, non si scontrano solo i padri e i figli, i poveri e i ricchi, le
prospettive e le casupole, ma anche il cerchio razionale e quello irrazionale,
il bianco e il nero. Belyj propende per la coté geometrico-razionale, anche se a
volte pare dubbioso.
Il ballo in maschera, letimotiv
caro ai simbolisti di qualche tempo prima, qui ritorna in una nuova veste, più
macabra se si vuole, in cui il protagonista, vestito da “domino rosso”, tormenta le coscienze dei benpensanti e auto-tormenta
la propria: il domino rosso, rosso come il sangue, rosso come le bandiere delle
proteste, rosso come il sole rosso che fra poco si scontrerà con il sole
giallo, è il simbolo, neppure troppo velato, del tempo crudele e burrascoso che
fu quel 1905.
Lo scrittore perciò impasta qui “metodi&miasmi”, una condotta razionale con una scenografia di
cartone da film espressionista tedesco: la nebbia della città partorisce i
mostri. D’altronde nulla è certo laddove i fantasmi si confondono con le persone, niente è sicuro
nelle strette vie che s’aprono d’improvviso sulle chilometriche prospettive,
nessuno è salvo e nessuno è assolto nella Pietroburgo in cui danza questo “poema d’ombre”.
Mattia
Nesto
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