In questi ultimi anni sto assistendo ad un fenomeno che solo
poco tempo prima, diciamo alla fine degli anni Novanta, non mi sarei aspettato
di vedere attuarsi cosí velocemente e in forma tanto conclamata, massiccia e
condivisa (da critici e narratori): il tracollo della letteratura italiana per
consunzione interna e assedio esterno. Ovvero: l'italiano è un malato grave che
non si regge in piedi ed è anche circondato da allegrissimi e pimpanti stranieri
anglofoni che gli fanno sgambetti. Lui cade a ripetizione ma intanto partecipa
alla festa, ride, ride a crepapelle, gli dà gusto, non vede l'ora di scomparire
dalla faccia della terra. Ogni volta che sbatte il muso sul pavimento
dell'ospizio impara una parolina straniera, per carità sempre rigorosamente mal
pronunciata. Ma la impara: non si dice biglietto si dice ticket, e lui: ticket ticket,
e ride e crepa. Poi entreranno nel loculo anche i pimpanti anglofoni, certo, è
solo questione di decenni, pochi pochini eh, ma per ora sono loro i carnefici e
l'italiano letterario è la vittima afflitta dalla Sindrome di Stoccolma.
Qualche lettore, ora, dirà: e crepasse pure, chi se ne frega dell'italiano letterario, io campo
bene anche senza, anzi: ma che ci sto a fare qui su Critica Letteraria, fammi
vedere un pornazzo va' che sono stanco. Ah magari tu potessi, o lettore
casuale! Purtroppo non puoi. Perché esiste una tragica coincidenza: l'italiano
è una lingua letteraria o non è italiano, dunque se scompare lui, il
letterato, crepi anche tu, cioè schiatta anche la lingua parlata dal tipo ''chi
se ne frega'' che scrive solo tuitter e fesbuc e vede solo i film… insomma ecco
festosamente in arrivo sul primo binario il rapido esaurirsi della nostra
lingua in ogni suo àmbito. Ben presto rimarremo TUTTI a bocca asciutta,
grugnendo, frinendo, tutt'al piú squittendo. Ecco l'ultimo tuitter del
presidente del Consiglio: Beeeeh, mu, mu, miao, bau, grrrr.
E perché mai? Semplice: siccome l'italiano è ed è sempre
stato una lingua fatta per esser fruita solo da chi fosse capace di
concentrarsi nella lettura o nell'ascolto – lingua di bellezza e d'armonia
poetica – essendo il cittadino contemporaneo brutto e disarmonico, distratto,
sovraffaticato da fesserie tecniche e conti bancari, delle parole vere a costui
non può importare un tubero, quindi tale lingua, la mia, muore inascoltata,
sola e sghignazzante. Mentre la maggioranza di quella piccola minoranza che
continua a leggerla sui libri capisce solo – e a malappena – i pensierini che
trent'anni fa scrivevano i bambini delle Elementari, ed oggi i grandi scrittori. Dimostrazione:
''C'è un bar lí di fronte. Nel naso gli arriva profumo di
brioche appena sfornate. Ne mangerebbe tre, quattro. Con i soldi che ha in
tasca deve scegliere, mangiare o il biglietto del treno.''
Il brano è di Andrea Vitali, definito sul Corsera da Antonio D'Orrico ''un
grandissimo scrittore''.
Da qui al grugnito ormai non c'è piú che un minuscolo passo
– che oltre trenta milioni di non lettori hanno già mosso, il passo verso il
medioevo mediatico: conta il comunicare non il cosa comunicare e stop.
Ditemi, vedremo mai piú, in una novità narrativa, periodi scritti
come lo fu il seguente, degli anni Trenta:
''Risultò dal seguito dell'interrogatorio che il furgoncino
a triciclo, appena pitturato a nuovo con la insegna di fabbrica, costituita da
un leone rampante su d'un napoleone d'oro in campo scarlatto, aveva emesso,
all'atto del sinistro, il suo gemito di vittima, in suono d'un pauroso
scricchiolio: e rovesciato e scoperchiato dopo il sinistro traverso il mezzo
della strada aveva assunto l'impreveduto aspetto d'un romboedro, non tuttavia
privo d'una tal quale dignità.''
(Carlo Emilio Gadda, da Un
fulmine sul 220, Garzanti, p. 103)
No. Non ci si arriva col cervello né con la sensibilità.
Dunque ecco: non ho tempo per leggere
cose pesanti. Pesanti un corno. Belle. Pesante sei tu, homo italicus medio,
che mi rompi le scatole tutti i santi giorni col tuo telefonino megafunzionante,
il tuo internet onnisciente e le tue chiacchiere da bar per falliti privi di
fantasia e ignoranti come i contadini di trecento anni fa (con i quali tu non
vuoi avere nulla a che fare, per carità, guai a ricordarsi che proprio tu,
proprio noi ne discendiamo. Invece i nostri avi agricoltori erano
dignitosamente analfabeti, mica come noi che lo siamo senza dignità, per
trascuratezza, per abbandono, per decadenza spirituale).
Ebbene, ad esser precisi, alcune avvisaglie di questo
rincoglionimento congiunto popolare e artistico le avevo percepite già nei
primi anni del secolo XXI, tant'è che mi ero permesso di scriverci sopra un
romanzo distopico-realistico, Il menú,
in cui mettevo in bocca – o meglio nella penna – del poeta napoletano Cesare
Menicucci questi pensieri, da lui scritti nel 1997:
Ora io qui purtroppo
sento un gran putiferio
confonder ciò che troppo
l'uomo ordinò sul serio:
ogni parola sfugge
al voler di chi la scriva
e anche di chi legge,
come animata e viva!
Sí, l'avevo intuito, il coma irreversibile del mio popolo, e
adesso non me ne vanto mica, figuriamoci. Sarebbe come se un microbiologo si
vantasse di aver scoperto l'Ebola senza scoprirne la cura o almeno il vaccino. Tuttavia,
allora, ancora speravo in cose come quelle che riporto qui, per chiudere questa
tirata. Vediate il paragone fra l'uom
divino (Ulisse) e il contadino (alcun,
che solitaria suole condur la vita in sul confin d'un campo) come una
similitudine fra uno di noi italiani moderni e il fuoco letterario che brucia
inavvertito da qualche parte dentro di noi.
''Gioí alla vista delle molte foglie
L'uom divino, e corcossi entro alle foglie,
E a sé di foglie sovrappose un monte.
Come se alcun, che solitaria suole
Condur la vita in sul confin d'un campo,
Tizzo nasconde fumeggiante ancora
Sotto la bruna cenere, e del foco,
Perché cercar da sé lungi nol debba,
Serba in tal modo il prezioso seme;
Cosí celossi tra le foglie Ulisse.''
(Odissea di Omero, tradotta da Ippolito Pindemonte tra il
1806 e il 1818. Libro V, vv. 629-638: l'arrivo di Ulisse naufrago a Schèria,
l'isola dei Feaci)
Sergio Sozi
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