Gli anni
di Annie Ernaux
L'orma, 2015
traduzione di Lorenzo Flabbi
pp. 276
€ 16
«Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più.»
La motivazione che spinge Annie Ernaux alla narrazione de Gli anni, recentemente tradotto da Lorenzo Flabbi per L'orma ma uscito in Francia già nel 2008, è costantemente richiamata nel testo.
È una volontà di scandagliare la memoria per farne emergere pura e cristallina non una verità monolitica, ma i frutti frammentati della propria esistenza.
D'altronde l'epoca del pensiero totalizzante, dell'uniformità degli -ismi è passata da un pezzo e ha lasciato il posto a una stanchezza, un'uniformità pigra e indolente, televisiva.
E “contro il logorio della vita moderna”, per dirla con la pubblicità del Cynar, la Ernaux confeziona un libro emozionante, appassionato, disperatamente intriso di ricordi.
Uso il verbo confezionare, e non a caso, perché il suo narrare è un ritagliare dalle pieghe del tempo i tasselli di un'esperienza che restituisce «ritrovando la memoria della memoria collettiva in una memoria individuale, la dimensione vissuta della Storia».
Christian Raimo, in un bell'articolo su “Internazionale” del 14 giugno, inserisce Gli anni in un'ideale triade -insieme a Nel mondo a venire di Ben Lerner (Sellerio) e L’arte di collezionare mosche di Fredrik Sjöberg (Iperborea)- di libri che «parlano di quello strano e comune oggetto narrativo che è il sé -o se vogliamo ancora dirla meglio, sono tre testi che scrivendo di sé, ragionano su cosa questa scrittura autobiografica comporti».
Non autobiografia, ma autofiction (il cui maestro indubbiamente più conosciuto è Emmanuel Carrère, pensiamo soltanto Vite che non sono la mia), modalità in cui il guardare dentro di sé dello scrittore è un modo per sublimare anche la collettività delle esperienze e filtrarla lasciando al lettore una sensazione di tuffo e riemersione da un'interiorità ulteriore.
Più difficile scriverne che leggerlo, questo libro-spartiacque (me l'hanno consigliato dicendomi che sarebbe stato un libro che avrebbe cambiato per sempre la mia percezione di lettrice, e così è stato) fatto di una narrazione scivolosa, divorante, affastellata, volutamente sconnessa, come se per un momento avessimo il potere di dare un'occhiatina nel cervello e nella memoria di qualcun'altro.
«La forma del suo libro -scrive la Ernaux autocommentandosi- può dunque emergere soltanto da un'immersione nelle immagini della sua memoria per esporre in dettaglio i segnali specifici dell'epoca, dell'anno, più o meno certo, nel quale esse si situano – per collegarle tra loro e ad altre ancora, e sforzarsi di riascoltare le parole delle persone, i commenti sui fatti e sugli oggetti estrapolati dalla massa fluttuante dei discorsi, quel vociare che apporta senza tregua le continue formulazioni di ciò che siamo e dobbiamo essere, pensare, credere, temere, sperare».
Veniamo accompagnati nel dipanarsi degli anni (dal dopoguerra a oggi) di una donna che ricorda per successivi episodi, quelli fondamentali, della Storia, ma soprattutto quelli insignificanti, una pubblicità, un libro letto, qualcosa visto per strada, un luogo di villeggiatura, una canzonetta, che acquistano spessore soltanto in virtù di questa particolare narrazione, del particolare momento in cui ci vengono posti davanti.
A tratti ci descrive singoli mucchietti di istantanee, per poi passare a brevi racconti più distesi eppure scarni. Ciò che conta è soltanto il dettaglio, milioni di dettagli che compongono come in un quadro impressionista la visione d'insieme.
L'impressione che questo libro dovrebbe lasciare (e che in effetti lascia) scrive ad un certo punto l'autrice, è «una colata di luce e ombra su dei volti».
Si arriva estasiati all'ultima riga, ci si chiede stupefatti cosa ci sia appena accaduto.
Ecco che Annie Ernaux ha trovato il modo di narrare il Sentimento del Tempo.
Giulia Marziali
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