Ragazzi di zinco di Svetlana Aleksievič
traduzione di Sergio Rapetti
Edizioni e/o, 2015
Ci chiamano “afgancy”. Un nome dal suono straniero… Un marchio. Un segno distintivo.
1979:
comincia la guerra in Afghanistan
e termina dieci anni dopo; un milione di ragazzi e ragazze partono in
guerra, circa quattordicimila tornano in Urss nelle casse di zinco, sigillate
e poi seppellite in tutto il territorio
sovietico, non come caduti in guerra, ma
in silenzio.
Il “dovere internazionalista” aveva fallito, bisognava nascondere i corpi e nessuno doveva sapere che era stata una guerra per nulla eroica. Afgancy furono i soldati sovietici in Afghanistan, i ragazzi di zinco.
Il “dovere internazionalista” aveva fallito, bisognava nascondere i corpi e nessuno doveva sapere che era stata una guerra per nulla eroica. Afgancy furono i soldati sovietici in Afghanistan, i ragazzi di zinco.
Pubblicato solo nel 1985 ─ quando la censura fu
ammorbidita dal nuovo corso della Perestrojka e dalla venuta di Gorbačëv,
succeduto a Brežnev ─ Ragazzi di zinco costituisce la
parte finale di una produzione (che va da Preghiera per Černobyl’ a La
guerra non ha un volto di donna) in
cui Svetlana Aleksievič continua a indagare i retroscena della guerra,
dando voce direttamente ai superstiti.
Il
libro suscitò grande scandalo e Svetlana Aleksievič fu accusata di aver falsificato e deformato
le testimonianze dei reduci e delle loro madri; nel 1993 viene citata in
giudizio per diffamazione da alcuni degli intervistati.
La
forza di Ragazzi di zinco, non sta
tanto nei contenuti delle storie raccontate – fondamentalmente di guerra, né
più né meno di altre testimonianze – ma nel cambio di prospettiva, nella
disillusione che il libro suscitò nell’opinione pubblica sovietica. Svetlana
Aleksievič denuncia l’inutilità e l’inganno
della guerra in Afghanistan, una sorta di “Vietnam” russo, guerra in cui l’Urss
cercava una conferma di potenza, ma ne uscì sconfitta.
Senza
dubbio è bene definirlo un libro documentario sulla guerra in Afghanistan, in
cui l’autrice rimane fedele allo stile-intervista che rappresenta l'elemento
portante dei suoi reportage, senza abbandonare l’impronta di romanzo epico-corale che la caratterizza, ricreando ancora una volta la sua struttura
polifonica; come spiga Sergio Rapetti, nel saggio Le guerre di Svetlana, l’autrice fu influenzata da Ales’ Adamovič,
uno dei maggiori scrittori biellorussi di romanzi-testimonianza.
Tre
giornate di superstiti che raccontano a turno le loro storie, ricalco di quelle
boccacciane, se pur ridimensionate; ogni giornata ha un inizio biblico, con
esplicito riferimento al primo, secondo e terzo giorno raccontati dalla
Genesi. C’è il firmamento, le acque e
anche il giorno e la notte, ma non ancora l’uomo, che l’autrice esclude
volutamente dalle immagini bibliche per mostrarlo nella sua fragilità e
sconfitta. Probabilmente Aleksievič sta cercando delle risposte nelle Sacre
Scritture, interrogandosi su “quanto ci sia di umano nell’uomo”; è il dubbio
che la guerra fa comparire nelle menti sensibili, questione sulla quale si era
interrogato anche Elio Vittorini, durante un’altra guerra, la Seconda, in Uomini e no, e ancora prima in Conversazione
in Sicilia. Così scriveva:
Ma forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è genere umano. Questo è un dubbio che viene, nella pioggia, quando uno ha le scarpe rotte, acqua nelle scarpe rotte, e non più nessuno in particolare che gli occupi il cuore, non più vita sua particolare, nulla più di fatto e nulla da fare, nulla neanche da temere, nulla più da perdere, e vede, al di là di se stesso, i massacri del mondo.
Isabella Corrado
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