Gli anni che vanno
dal 1958 al 1963 sono detti del Miracolo Economico italiano. I fattori determinanti furono diversi: la fine del protezionismo economico, l’istituzione
del MEC, la modernizzazione dei mezzi e delle tecniche di produzione
industriale, ma soprattutto la possibilità degli imprenditori italiani di
autofinanziarsi mantenendo basso il livello dei salari. L’Italia, che negli
anni Cinquanta era ancora un paese fondamentalmente agricolo ed arretrato, ebbe
un enorme slancio nell’economia, tale da provocare un cambiamento irreversibile
della società e delle abitudini. Cambiò il linguaggio, l’abbigliamento, i
consumi. Si fece spazio nella vita dei cittadini l’utilizzo dei beni di lusso (dagli
elettrodomestici all’automobile), ci fu un’americanizzazione diffusa. In breve,
nacque la Società dei Consumi.
In questi anni di
assalto della modernità, il ritorno alla poesia ha il valore del recupero di
una realtà originaria che stava scomparendo troppo velocemente. È allora il
tempo della Poesia Dialettale – da Albino Pierro a Pier Paolo Pasolini – per
redimere la freschezza dell’uomo e dei luoghi, ma anche per rifugiarsi in uno
spazio incorrotto, libero da contaminazioni con la modernità. Il dialetto, partendo da premesse di tipo (neo)realistico, poteva condurre alla
fuga dal Realismo.
Albino Pierro
riuscì, attraverso un attento e continuo lavoro formale e metrico, all’originalità
e alla schiettezza del lessico, a creare nel dialetto tursitano una lingua
illustre, a renderla celebre quale antica lingua romanza, che attirò
l’attenzione di numerosi critici, filologi e linguisti internazionali. Grazie infatti
alle risorse foniche e simboliche che tale idioma possiede, lo studioso tedesco
Gerhard Rohlfs, nei suoi Studi
linguistici sulla Lucania e sul Cilento, lo definì il «vero rampollo di una
latinità arcaica», nascosto nella zona
sud orientale della Lucania «una delle aree più isolate e conservative
dell’intera Romània».
In 'A terra d'u
ricorde, Pierro spiega come la lingua delle sue poesie coincida con quella
che si parlava a Tursi quando era bambino: «ho dovuto cercare il modo di
fissare sulla carta i suoni della mia gente». Un lavoro linguistico, oltre che
poetico.
Pierro – poeta
orale, disceso direttamente dalla Magna Grecia – con le sue liriche (che amava
recitare personalmente) da voce ad una lingua originaria; i temi sono quelli classici:
la vita, la morte, l’amore. Ricorre la solitudine, quasimodiano leitmotiv della lirica novecentesca.
Immancabile – come
in Sinisgalli – il bestiario, espressione di un sentimento popolare, spesso di
mestizia, messo in metafora a contrasto con tutte le bellezze “eterne e tali e
quali”, eredità di un passato classico (di cui Metaponto ne è sicuramente
l’espressione) e un passato di violenza (riconducibile all’invasione saracena).
Origini arabe ha
infatti il rione costitutivo del paese di Tursi: la Rabatana; il posto fu abitato dai saraceni, che diedero il nome al
luogo e lasciarono profonde tracce nell’architettura e nel dialetto locale. La
lirica «A Ravaten» appare per la prima volta nel libretto A Terra d’u ricorde , tradotto come terra del ricordo, o se si
preferisce terra della memoria, che ebbe la sua prima edizione a Roma nel 1960,
poi inglobato nel volume Metaponto,
edito da Garzanti nel 1982. La terra del
ricordo è Tursi.
La lirica «A
Ravaten» (leggi qui: www.criticaletteraria.org/2012/04/pillole-dautore-albino-pierro.html) ha un valore senza dubbio religioso. Il poeta parte da immagini di
luoghi ruvidi, dalla natura irta, dove i sassi sono pitrizze e gli abitanti disagiati, fino a trasalire in un climax
ascendente verso la figura ferma di
madre-madonna. Stesso
fervore lirico e disperazione trapelano dalle liriche amorose, che sono
ordinate nella raccolta I ‘Nnnammurète;
anche qui la donna-domina sovrasta la figura del poeta, annientato dall’amore
al pari di un autore stilnovista.
Esiste un costante conflitto psicologico tra i
luoghi d’infanzia e quelli dell’età matura, oscurantismo e civiltà, poli spesso
contraddetti e ribaltati; la natura è suggestiva e maligna in ogni dove, avversità
che esprime in versi, con l’uso di
paronomasie (ad es. vente c’arrivèntete nella lirica «Nun c’è pizze di Munne») e suoni
duri. Per dirla con Contini, quella di Pierro è senza dubbio una poesia
‘materica’, ma è anche sperimentazione linguistica di un poeta colto e raffinato;
è poesia del ricordo, che fugge in un passato prossimo, dove lingua e immagini
paesane mostrano un quadretto d’umanità, sempre pervaso da una cappa scura di
rassegnazione.
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