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"Lettera al figlio che non avrò" di Linda Lê: quando la rinuncia alla maternità diventa una colpa da espiare

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Lettera al figlio che non avrò
di Linda Lê
Edizioni Clichy, Firenze, 2015

Traduzione italiana di Tommaso Gurrieri

pp. 96
10 euro


Confrontarsi con Lettera al figlio che non avrò di Linda Lê significa andare a scavare nella propria individualità, nelle pieghe di una riflessione tanto intima come quella della scelta di accogliere o rifiutare la possibilità della maternità, una scelta che ogni donna si trova inevitabilmente a dover affrontare.
In poco più di settanta pagine, la protagonista scrive, apparentemente di getto, una lettera accorata a un Bambino, il suo Bambino, quello che non ha mai concepito, quello a lungo desiderato dal suo compagno e la cui rinuncia l’ha condotta alla rottura della relazione più importante della sua vita.
In questa missiva, la protagonista racconta la propria infanzia, segnata dal rapporto difficile con una madre anaffettiva, le difficoltà economiche di una scrittrice che non rientrerà mai nelle classifiche dei bestseller, gli ostacoli sentimentali nel rapporto con un uomo che sfiora l’ossessione nel chiederle incessantemente un figlio; racconta i progetti, racconta i motivi della Rinuncia, quella maiuscola, la Rinuncia ad accogliere il dono della maternità, vissuto come una minaccia, una restrizione della propria libertà individuale.

Una rinuncia che è dunque apparente affermazione della propria autonomia di scelta, della propria emancipazione da uno schema naturale che è diventato costrizione sociale, ma che, s’intuisce, non è una scelta serena. È una rinuncia autopunitiva, è infliggersi un tormento per espiare una colpa, l’estremo tentativo di salvare quel Bambino da una madre inadeguata e pericolosa:
Nei giardinetti pubblici, piccoli cherubini scorrazzavano, arrampicandosi sugli scivoli, passandosi il pallone, giocando a nascondino, io li contemplavo da lontano, e mi dicevo che era troppo tardi per rimproverarmi di non aver concepito. (…) Non c’era posto per te nella strana vita che conducevo. Non mi avresti perdonata di coinvolgerti nell’aleatorio, di avvilirti perdendomi in impegni lunghi e complessi che mi avrebbero tenuta lontana da te, abbandonando il mio posto proprio quando avresti contato sul mio auto, non mi avresti perdonato di non avere un atomo di saggezza…
Pagine intense che descrivono con scientifica accuratezza un malessere che arriva a condurre la protagonista sull’orlo della pazzia:
Dovunque andassi ti mettevi sulla mia strada, ti attaccavi alle mie sottane, mi sussurravi frasi inintelligibili, istruivi il mio processo. (…) Eri l’inquisitore più inesorabile, non mi consentivi in alcun modo di discolparmi: venivo giudicata per accoppiamento infecondo, non rispetto delle convezioni, rabbia d’introspezione, evasione attraverso la fabulazione.
Lo scorso novembre, ho incontrato Linda Lê, all’Institut français di Firenze (qui, la cronaca dell'incontro); in quell’occasione, l’autrice franco-vietnamita ha raccontato la genesi di questo libriccino così breve e intenso: nato dalla richiesta dell’editore francese della scrittrice di inaugurare una collana dedicata alle «lettere che non si ha il coraggio di scrivere», Lettera al figlio che non avrò è certamente il più autobiografico tra i romanzi di Linda e definisce, pagina dopo pagina, un bagaglio di maternità che, sebbene negato, sembra esistere nella giovane donna protagonista.
Durante quell’incontro, fu la stessa Linda Lê ad anticipare la questione dell’inevitabile confronto con Lettera a un bambino mai nato di Oriana Fallaci, sottolineando la profonda differenza tra l’uno e l’altro: nel romanzo della Fallaci non c’è una rinuncia alla maternità ma la cronaca di un aborto spontaneo. Seppur innegabili, le differenze tra il capolavoro della Fallaci e questo bel libro di Linda Lê sembrano fermarsi qui, in questo punto nodale ma sorprendentemente quasi superficiale. Quello che si percepisce leggendo è una vicinanza intima tra le due lettere, se non altro in quell’agguerrita affermazione dell’individualità di una Donna, che va oltre e che prescinde la maternità, ma che in entrambi i casi è anche dolorosa e sofferta.
Linda e Oriana sono donne, scrittrici, menti indipendenti e brillanti, e nel loro affermarsi come autonomi individui, manifestano allo stesso tempo un amore materno indicibile per quei bambini che non sono riusciti a venire al mondo.
Quello che si intuisce dalle sofferte pagine di Lettera al figlio che non avrò è l’estremo dolore, il carattere di lutto che la rinuncia alla maternità comporta nella protagonista. È come se la scelta di proseguire a vivere sola, senza cedere al desiderio del compagno di avere un figlio, diventi per lei una colpa pesante che piega le spalle, insiste come un macigno sopra la sua testa:
Ero come una vagabonda abbandonata in mezzo al caos, tutti volevano farmi del male, saltarmi addosso, ero sospettata di aver il culto di me, incriminata per reato di non appartenenza: non avevo alcun senso del dovere, ero un fico senza frutti.
Una visione di una scelta personale e legittima che apre la strada alla riflessione: è davvero così facile per una donna, nella società contemporanea così apparentemente libera, aperta, e favorevole alla determinazione autonoma del proprio vissuto, scegliere di rinunciare alla maternità?
Le donne che decidono di affermarsi nel lavoro, di vivere relazioni profonde senza che esse si evolvano nella creazione di una vita nuova, le donne che non hanno il desiderio di concepire, trasformare il proprio corpo per accogliere un altro essere umano, stravolgere la propria vita, lasciare che i propri bisogni e interessi siano messi in secondo piano dai bisogni e interessi di un altro essere vivente, sono davvero accettate a livello sociale? O non sono, piuttosto, guardate con sospetto, con giudizio, con un silenzioso dito puntato verso le loro coscienze?

Quel che è certo, e che emerge lampante dalle pagine di questo bel libro, è che la maternità rappresenta per ogni donna, anche per colei che rivendica il proprio diritto a non procreare, l’interrogativo primo per eccellenza, la riflessione più intima e fondamentale, la scelta più significativa e travagliata da compiere.

Della stessa autrice, Come un'onda improvvisa: leggi qui.

Barbara Merendoni