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© Debora Lambruschini
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di Carrie Snyder
Sonzogno, marzo 2016
Traduzione di Gioia Guerzoni
pp. 288
euro 16.50 - ebook euro 9.99
È con un misto di curiosità e scetticismo che, pochi giorni fa, ho iniziato a leggere il romanzo di Carrie Snyder edito in Italia da Sonzogno. Da una parte infatti ad accendere il mio interesse una storia al femminile, una protagonista forte ed indipendente, la vecchiaia e il confronto con i fantasmi del passato, in quella che fin dalla presentazione si intuisce essere una trama ricca – e, come vedremo, lo è forse anche troppo - , a cui poteva essere facile appassionarsi.
Ma dall’altra parte la perplessità di fronte ad uno dei temi centrali del romanzo verso il quale non ho la minima inclinazione perché, diciamolo chiaramente, io detesto la corsa. E ora, che la primavera sembra un po’ ovunque aver fatto capolino, parchi e piste ciclabili si popolano di runner o aspiranti tali, la musica nelle orecchie per cercare il ritmo giusto e la testa sgombra di pensieri. Provo a seguirli, di tanto in tanto, ma neanche stavolta temo riuscirò ad appassionarmi alla corsa, non davvero perlomeno.
Capirete quindi che ritrovarmi fra le mani la storia di Aganetha Smart, la ragazza che corre, decisamente mi ha fatto sorridere. Eppure, nonostante non riesca a provare empatia fino in fondo con il personaggio, noi lettori sappiamo bene che non sempre condividere punto di vista, esperienze, età o cose simili, siano fondamentali per entrare in sintonia con la storia e i suoi protagonisti ma che anzi, a volte, è proprio la scoperta di realtà tanto più lontane dalla nostra esperienza a rendere la lettura ancora più interessante, la scoperta di un mondo e di noi stessi. E vivere in qualche modo quelle mille vite possibili solo attraverso le storie.
Tutto questo per dirvi che no, Girl Runner non mi ha scatenato la voglia irrefrenabile di indossare le scarpe da corsa, alzarmi all’alba e macinare chilometri su chilometri, ma del resto non si può nemmeno dire che dopo aver letto Il signore degli anelli mi abbia assalito il desiderio di andarmene in giro ad uccidere orchi. Quindi, fintanto non mi si trascini su una pista, il romanzo di Carrie Snyder è un esordio in cui non mancano spunti interessanti, una lettura piacevole, pur con alcuni limiti difficili da ignorare del tutto.
Partiamo proprio da questi: in meno di trecento pagine, lo sforzo di condensare la vita di un’atleta, una donna, il confronto con ambienti prevalentemente maschili, i legami famigliari, gli affetti, l’indipendenza, le scelte difficili, i segreti del passato, la riflessione sulla vecchiaia. Ma c’è davvero tanto, troppo perfino, in questo romanzo, come se la storia di Aganetha avesse preso il sopravvento, impossibile da controllare, qualcosa che sembra essere una costante nei romanzi di recente pubblicazione ma che non tutti gli autori riescono a gestire con ugual maestria. C’è troppo, di tutto: troppi spunti che restano solo tali, troppi temi con cui confrontarsi non adeguatamente trattati, troppi sentimenti e relazioni soltanto abbozzati senza il giusto spessore psicologico che avrebbero meritato. È un fiume in piena, Aggie, protagonista e voce narrante della storia, dove presente e passato si intrecciano, tra parole e pensieri, ricordi e segreti gelosamente custoditi per un tempo incredibilmente lungo. La casa, il cuore della storia, custode di segreti e desideri, dalla quale non tutti riescono ad allontanarsi, quel bizzarro faro costruito proprio per indicare la via, anche a distanza di tanto tempo; una famiglia e i suoi misteri, in cui aleggia qui e là il richiamo ad una narrazione che ricorda alcuni romanzi di Isabel Allende, ma meno compiuta, puntuale, poetica.
Ed è la voce della protagonista, forse, tra gli elementi più interessanti della storia, Aganetha, la ragazza d’oro: l’atleta canadese, sul gradino più alto del podio alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928, le prime in cui le donne possono gareggiare in alcune discipline atletiche, che ricorda i sacrifici, la fatica, il desiderio di indipendenza, la fama, il cuore diviso tra la passione per la corsa e gli affetti; oggi, che quasi nessuno più conosce la storia di quest’anziana, silenziosa signora di centoquattro anni, le giornate sono scandite dalla routine della casa di riposo di cui è ospite, una quotidianità improvvisamente interrotta dalla visita di due giovani sconosciuti, che a lungo l’hanno cercata desiderando raccontare la sua storia. La donna si lascia portare fuori, indecisa se fidarsi o meno, ma pronta a vivere un’ultima avventura. E, soprattutto, fare i conti con il passato, i segreti e le persone che ha perso, i sacrifici, le delusioni, i legami famigliari indissolubili. In un continuo alternarsi tra presente e passato, pensieri e parole, i ricordi di Aggie danno forma alla sua storia, mentre le persone che ha amato ritornano più vivide che mai, come se non se ne fossero mai andate. Così tanti anni sono passati da quando era solo una ragazza, libera di correre per la campagna, gareggiare con i maschi, aiutare i genitori alla fattoria. Quella casa, che ha custodito i segreti di tutti loro, le storie di chi arrivava in cerca di aiuto, i profumi dell’infanzia, i misteri che solo il tempo ha potuto svelare. Una grande famiglia, i figli del primo matrimonio del padre legati da sincero affetto a quelli avuti dalla seconda moglie, una convivenza non sempre facile, lo spettro di chi se ne è andato per colpa della malattia o della guerra. La morte, qualcosa con cui Aganetha ha imparato presto a fare i conti, i necrologi a raccontare brevemente chi sono state le persone che ha amato. E il desiderio, per alcuni di loro, di trovare la propria strada fuori dai confini della fattoria, l’avventura in città, mentre quelli che restano sembrano condannati a sacrificare i propri sogni. È tra coloro che scelgono di andarsene, Aganetha, irrequieta, forte, il ricordo di casa, di Fannie l’amatissima sorella, ma la determinazione a correre sempre più veloce, a vincere.
Ma dall’altra parte la perplessità di fronte ad uno dei temi centrali del romanzo verso il quale non ho la minima inclinazione perché, diciamolo chiaramente, io detesto la corsa. E ora, che la primavera sembra un po’ ovunque aver fatto capolino, parchi e piste ciclabili si popolano di runner o aspiranti tali, la musica nelle orecchie per cercare il ritmo giusto e la testa sgombra di pensieri. Provo a seguirli, di tanto in tanto, ma neanche stavolta temo riuscirò ad appassionarmi alla corsa, non davvero perlomeno.
Capirete quindi che ritrovarmi fra le mani la storia di Aganetha Smart, la ragazza che corre, decisamente mi ha fatto sorridere. Eppure, nonostante non riesca a provare empatia fino in fondo con il personaggio, noi lettori sappiamo bene che non sempre condividere punto di vista, esperienze, età o cose simili, siano fondamentali per entrare in sintonia con la storia e i suoi protagonisti ma che anzi, a volte, è proprio la scoperta di realtà tanto più lontane dalla nostra esperienza a rendere la lettura ancora più interessante, la scoperta di un mondo e di noi stessi. E vivere in qualche modo quelle mille vite possibili solo attraverso le storie.
Tutto questo per dirvi che no, Girl Runner non mi ha scatenato la voglia irrefrenabile di indossare le scarpe da corsa, alzarmi all’alba e macinare chilometri su chilometri, ma del resto non si può nemmeno dire che dopo aver letto Il signore degli anelli mi abbia assalito il desiderio di andarmene in giro ad uccidere orchi. Quindi, fintanto non mi si trascini su una pista, il romanzo di Carrie Snyder è un esordio in cui non mancano spunti interessanti, una lettura piacevole, pur con alcuni limiti difficili da ignorare del tutto.
Partiamo proprio da questi: in meno di trecento pagine, lo sforzo di condensare la vita di un’atleta, una donna, il confronto con ambienti prevalentemente maschili, i legami famigliari, gli affetti, l’indipendenza, le scelte difficili, i segreti del passato, la riflessione sulla vecchiaia. Ma c’è davvero tanto, troppo perfino, in questo romanzo, come se la storia di Aganetha avesse preso il sopravvento, impossibile da controllare, qualcosa che sembra essere una costante nei romanzi di recente pubblicazione ma che non tutti gli autori riescono a gestire con ugual maestria. C’è troppo, di tutto: troppi spunti che restano solo tali, troppi temi con cui confrontarsi non adeguatamente trattati, troppi sentimenti e relazioni soltanto abbozzati senza il giusto spessore psicologico che avrebbero meritato. È un fiume in piena, Aggie, protagonista e voce narrante della storia, dove presente e passato si intrecciano, tra parole e pensieri, ricordi e segreti gelosamente custoditi per un tempo incredibilmente lungo. La casa, il cuore della storia, custode di segreti e desideri, dalla quale non tutti riescono ad allontanarsi, quel bizzarro faro costruito proprio per indicare la via, anche a distanza di tanto tempo; una famiglia e i suoi misteri, in cui aleggia qui e là il richiamo ad una narrazione che ricorda alcuni romanzi di Isabel Allende, ma meno compiuta, puntuale, poetica.
Ed è la voce della protagonista, forse, tra gli elementi più interessanti della storia, Aganetha, la ragazza d’oro: l’atleta canadese, sul gradino più alto del podio alle Olimpiadi di Amsterdam del 1928, le prime in cui le donne possono gareggiare in alcune discipline atletiche, che ricorda i sacrifici, la fatica, il desiderio di indipendenza, la fama, il cuore diviso tra la passione per la corsa e gli affetti; oggi, che quasi nessuno più conosce la storia di quest’anziana, silenziosa signora di centoquattro anni, le giornate sono scandite dalla routine della casa di riposo di cui è ospite, una quotidianità improvvisamente interrotta dalla visita di due giovani sconosciuti, che a lungo l’hanno cercata desiderando raccontare la sua storia. La donna si lascia portare fuori, indecisa se fidarsi o meno, ma pronta a vivere un’ultima avventura. E, soprattutto, fare i conti con il passato, i segreti e le persone che ha perso, i sacrifici, le delusioni, i legami famigliari indissolubili. In un continuo alternarsi tra presente e passato, pensieri e parole, i ricordi di Aggie danno forma alla sua storia, mentre le persone che ha amato ritornano più vivide che mai, come se non se ne fossero mai andate. Così tanti anni sono passati da quando era solo una ragazza, libera di correre per la campagna, gareggiare con i maschi, aiutare i genitori alla fattoria. Quella casa, che ha custodito i segreti di tutti loro, le storie di chi arrivava in cerca di aiuto, i profumi dell’infanzia, i misteri che solo il tempo ha potuto svelare. Una grande famiglia, i figli del primo matrimonio del padre legati da sincero affetto a quelli avuti dalla seconda moglie, una convivenza non sempre facile, lo spettro di chi se ne è andato per colpa della malattia o della guerra. La morte, qualcosa con cui Aganetha ha imparato presto a fare i conti, i necrologi a raccontare brevemente chi sono state le persone che ha amato. E il desiderio, per alcuni di loro, di trovare la propria strada fuori dai confini della fattoria, l’avventura in città, mentre quelli che restano sembrano condannati a sacrificare i propri sogni. È tra coloro che scelgono di andarsene, Aganetha, irrequieta, forte, il ricordo di casa, di Fannie l’amatissima sorella, ma la determinazione a correre sempre più veloce, a vincere.
Io sono muscoli, forza, apertura. Sono pace, profondo benessere, attesa. Sono forte, efficiente. La pressione minaccia di spezzarmi, ma io le vado contro. Corro sempre più forte quando spingo contro il vento.
È il racconto di sacrifici, allenamenti, traguardi e cadute, della scoperta dell’amicizia e dell’amore, di
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La verità è che non riesco a sentire il peso della tragedia, anche se non posso certo incolpare l’età avanzata. È come se fosse stato sempre così, inciso nelle mie ossa alla nascita. Mi ha fatto andare avanti per tutta la vita: il desiderio di mettermi alla prova, la voglia di cose estreme, l’incapacità di capire le conseguenze di un’azione. Questo mi rende insensibile o coraggiosa?
In più di un’occasione si ha la sensazione infatti che la corsa di Aganetha non sia altro che un modo per fuggire, dal dolore, da un passato con cui non riesce a fare i conti, dal costo dell’indipendenza; una fuga negli anni diventata sempre più necessaria, o l’unico modo per tenere a bada l’irrequietezza, il desiderio di andare sempre avanti, mettersi alla prova e sfidare i propri limiti, con coraggio ed incoscienza:
Per tutta la vita non ho fatto altro che andare da qualche parte, mirando un punto fisso all’orizzonte che sembrava non avvicinarsi mai. All’inizio l’ho inseguito con abbandono, con fiducia, poi con una certa frustrazione, con dolore, e ancora più avanti con la lucidità di un’artista della fuga. Ormai è troppo tardi per fermarmi, anche se corro solo nella mente, per abitudine.
Correre, per venire a patti con il dolore e la perdita, confrontarsi con chi è rimasto indietro, il peso delle proprie scelte e l’impatto sulle vite di chi amiamo, i legami famigliari non sempre facili. Se il presente resta, a mio avviso, la parte meno interessante di questa storia, la voce di Aganetha riesce tuttavia ad emozionare il lettore che insieme a lei si confronta con gli innumerevoli temi che emergono nel romanzo, ne scopre i misteri, alcuni più riconoscibili di altri. Di quel presente, resta però impressa la straordinaria forza di una donna a cui il tempo non ha scalfito l’antica determinazione, l’amore per la corsa che rivive ogni giorno nella sua mente, tornando con i ricordi ai luoghi della propria infanzia, dove ritrovare la famiglia, gli affetti, immutati:
Qui ci torno sempre. Nella mia mente, non sono mai davvero lontana.
È senz’altro il ritratto interessante di una donna libera, indipendente, che conosce la gloria e la sconfitta, l’amore e la disperazione. Una personaggio letterario nato dalla fantasia della sua autrice, ma che in fondo riusciamo ad immaginare ispirato a tutte quelle donne che, oggi come ieri, corrono, libere e forti.
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