L’albero di stanze
Di Giuseppe Lupo
Marsilio 2015
pp. 247
Euro 17.50
Metti una casa alta quanto un pioppo, una famiglia che sembra uscita da una leggenda e un medico sordo.
Si entra nell’Albero di stanze, l’ultimo romanzo di Giuseppe Lupo pubblicato da Marsilio Editore (2015). Lo scrittore lo ha presentato lo scorso 9 aprile al secondo incontro di Le pagine di Clio, la rassegna letteraria a Cernusco sul Naviglio nella libreria La bottega del libro, a cura dell’associazione CLIO Cultura Libri Opportunità con la direzione artistica della scrittrice Loredana Limone
Occorre fare un passo indietro, un passo lungo quarant’anni. È il tempo che Giuseppe Lupo ha impiegato per dare vita a una narrazione che aveva nella testa fin da ragazzino. Se quella del libro sia la sua famiglia e, se davvero abbia vissuto in una casa che sfiorava le comete non è importante, c’è una storia è questo basta.
Babele Bensalem vive a Parigi con la moglie e le due figlie, è un ortopedico ed è sordo. Il suo modo di curare i pazienti è tutto strano: fa avvicinare all’orecchio il punto del corpo dolorante per ascoltare le ossa. E poi li fa parlare. Inspiegabilmente la gente guarisce di fronte all’incredulità di Cécile, un medico dai metodi tradizionali, che proprio non capisce cosa combini il marito.
Negli ultimi giorni del 1999 Babele torna al suo paese d’origine, un luogo imprecisato nel Sud Italia, dove stanno smantellando la casa di famiglia di cui è unico erede.
Quella era la dimora voluta dal bisnonno Redentore che l’aveva costruita su un mulino come fosse un albero altissimo a cui negli anni si erano aggiunti tanti nuovi rami-stanze. È talmente grande da essere stata contemporaneamente un albergo, una sartoria, una forgia, un’officina, persino una scuola in cui la madre di Babele insegnava.
In quel posto all’uomo accade qualcosa di incomprensibile: i muri incominciano a parlagli, le parole di un secolo di storia familiare gli entrano nelle orecchie che pensava essere due cavità irraggiungibili: «viviamo in un mondo in cui tutti parlano e nessuno ascolta, lo si vede nelle vicissitudini quotidiane di chi è profugo o vittima di pregiudizi. Per questo Babele è sordo, ho cercato il silenzio in un mondo di troppe chiacchiere».
Quanto avranno da raccontare i muri di casa Bensalem! Custodiscono ancora la volontà di Redentore che prima di diventare mugnaio era un pietraio e non aveva mai smesso di ascoltare le pietre, allo stesso modo in cui Babele ha imparato a sentire le ossa. Si credeva discendente del re magio Balthasar, dal quale non potere derivare altro che una generazione gloriosa di uomini sognatori pieni di curiosità e ingegno.
C’è una data che ha segnato la vita e le scelte di Giuseppe Lupo: il terremoto dell’Irpinia del 23 novembre 1980 che colpì anche la sua regione, la Basilicata. «Nei giorni successivi al disastro sono diventato un lettore. Nella mia famiglia si è sempre letto molto, ma io non ne ho mai voluto sapere. Poi i libri finirono per salvarmi dalla desolazione di quell’inverno. Il terremoto interruppe la routine, distrusse la vita civile, tuttavia le storie non ci abbandonarono. Decisi che avrei fatto tutto per amore dei libri: gli studi universitari, la carriera accademica come docente di letteratura italiana, il mestiere di narratore».
Così si definisce Giuseppe Lupo, un narratore, perché nei suoi romanzi cerca il ritmo dello storytelling, dell’arte antica dell’affabulazione che gli viene da lontano, da un nonno un po’ acciaccato che nel suo negozio intratteneva i clienti raccontando loro storie.
Nell’Ultima sposa di Palmira (Marsilio 2011) immagina una città spazzata via dal sisma che è persino scomparsa dalla mappe. Un’antropologa milanese vi si reca per saperne di più e trova un luogo fantasma in cui l’unico custode della memoria è Gerusalemme, un falegname che su i mobili di una sposa sta intagliando i fatti del passato: «quando una civiltà muore rimangono le storie, ricorda Giuseppe. Dopo il terremoto i vecchi ripetevano che bisognasse raccontare perché quello che si racconta non muore. I libri sono come l’arca di Noè, salvano dalla morte».
Ogni ramo dell’albero di stanze è una storia che si intreccia con le altre in una macronarrazione mitica che è quella della famiglia Bensalem, una stirpe che al tempo ha chiesto di essere ricordata e delle cui vicende si sono impregnati per sempre i muri, diventati delle pareti parlanti.
Babele sfida la razionalità della moglie Cécile che si rifiuta di capire il marito, che lo chiama pazzo perché gli angeli lo esortano a salire in cima alla torre a scoprire la sua storia: «Non ci saranno altre occasioni e io credo che un uomo possa amare una e una sola casa: quella dove si arresta l’acqua del suo fiume, dove inizia e finisce la sua strada. Le altre sono un surrogato. A me è toccato inseguire i mali del mondo, capire perché crescono come muffa nelle ossa degli uomini, certe volte sono pure riuscito a scovarli e a sconfiggerli, ma non è mai capitato di sentirmi come nel paradiso quadrato dove ho respirato la prima aria quarant’anni fa, in cima al ramo più alto e luminoso di casa Bensalem». (p. 81)
Possiamo decidere che sia ora di costruire il nostro nido altrove, oppure possiamo andarcene sbattendo la porta, ma i luoghi in cui siamo nati continuano a parlarci perché sono stati preparati per noi, con la solidità delle pietre, la dolcezza del grano e la speranza delle comete.
(Giuseppe Lupo con Loredana Limone @ Le Pagine di Clio)
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