di Camilla Ghedini
Giraldi Editore, Bologna, aprile 2016
pp. 100
10 euro
Il bambino comincia in noi molto prima del suo inizio. Ci sono gravidanze che durano anni di speranza, eternità di disperazione.
Così scriveva la poetessa Marina Cvetaeva. Ed è una frase
calzante, che coglie il senso profondo di “Interruzioni”; un piccolo
libriccino, appena 98 pagine, di Camilla Ghedini, giornalista ferrarese, in uscita domani, 30 aprile 2016.
Appena 98 pagine, dicevo, quattro brevi capitoli. Eppure mi
ci sono voluti altrettanti giorni per arrivare in fondo al libro di Camilla. Ho
dovuto leggere un capitolo alla volta, perché ognuno di essi l’ho dovuto
affrontare armata, come si affronta una battaglia. Una delle più dure, quelle
contro una parte di sé.
Quattro donne, quattro madri,
non in senso biologico (o almeno non in tutte le storie) ma spirituale, quattro
capitoli che rappresentano altrettanti nuclei narrativi, indipendenti tra loro,
uniti da un unico legame: sono quattro monologhi che parlano di maternità.
Maternità rifiutata, maternità annegata, maternità sperata e soltanto sfiorata.
Parlare di maternità, scriverne, può significare scivolare
nel luogo comune, raccontare questo straordinario miracolo della natura
banalizzandolo. Persino scrivendo di quella categoria così poco osservata,
trascurata, quella delle donne non madri
(per scelta o contingenze della vita) si rischia di cedere alla ripetizione di
concetti triti e ritriti: la donna egoista che non vuole figli perché ha come
unico obiettivo la carriera; la donna che si abbandona alla disperazione dopo
un aborto…
Non è il caso di “Interruzioni”.
Camilla Ghedini affronta un tema così spinoso, quello della
maternità nelle donne non-madri (sì, perché tutte le donne hanno una dimensione
spirituale materna, anche quando non concepiscono, anche quando rifiutano il
frutto del concepimento), mettendo al bando ogni retorica, incalzando il
lettore con un linguaggio semplice, diretto, implacabile.
La sua scrittura non lascia tregua, è come un bisturi che
apre, con scientifica sapienza, squarci abissali nell’animo di chi legge,
soprattutto quando la lettrice è una donna.
Perché è impossibile non riconoscersi nelle quattro protagoniste
delle storie di “Interruzioni”, è impossibile non indossare i loro panni, anche
quando si tratta di quelli succinti e scomodissimi di una madre infanticida,
che parla dall’ospedale psichiatrico in cui è rinchiusa e rifiuta di mostrarsi
sconfitta, vittima, disperata.
“Interruzioni” comincia con un dialogo tra una madre e una
donna senza figli: la prima vomita addosso alla seconda tutto l’armamentario
dei luoghi comuni sulla maternità che tutti noi conosciamo. Una madre sa cosa è meglio per suo figlio, una
madre ama il suo bambino al di sopra
di tutto, una madre può parlare di
figli, una donna non madre no. Agli stereotipi si contrappone la verità amara,
quella che tutte le donne portano dentro: spesso una madre dimentica cosa
significa essere figlia.
- Ma tu che ne sai? Tu non sei stata madre neppure per un giorno.- Io sono figlia, dunque, ripeto, io so.
- Sei figlia, sei solo figlia.
- Io so gli errori che i figli pagano. Io so le insoddisfazioni che i genitori trasmettono. Io so la pesantezza dell’infanzia. Io so l’infelicità degli adulti.
Il secondo capitolo è forse il più difficile da affrontare:
la voce è quella di una donna, una madre che ha compiuto il più terrificante
dei delitti. Ha ucciso suo figlio. Attraverso i suoi occhi, la sua prospettiva,
il lettore è costretto a guardare la realtà da una posizione scomoda. Una madre
non è mai solo una madre: rimane donna, rimane individuo. I figli non si amano
per forza, essere madri non è un automatismo, non esiste istinto che guida un
essere vivente nel sacrificio di sé stesso per un altro. Ciò che si intuisce,
che si è costretti a intuire è che
l’istinto materno e l’amore totalizzante verso i propri figli sono grandi
bugie, convinzioni etero e autoimposte. Una madre la cui identità è
costantemente umiliata, sacrificata, schiacciata, può arrivare a coltivare in
sé un desiderio di fuga.
Ti manca ancora una domanda. (…) La conosco. È «amavi tuo figlio?». Certo che lo amavo, non sono mica i miei sentimenti in discussione. Era bello, buono, sorridente. È vero, piangeva, ma lo fanno tutti, è naturale. Però amavo più me stessa. Sì, è così. Me ne accorgevo. Non lo amavo più di ogni altra cosa al mondo, come vorrebbero tutti, come ripetono tutti.
Nel terzo capitolo la protagonista ha appena quarant’anni e
parla con sua madre da un letto di ospedale. Quella ricoverata è lei, le
mancano poche ore di vita quando al suo capezzale si precipita sua mamma,
attonita e sconvolta. Il suo testamento spirituale è una lunga lettera in cui si
misura la distanza tra una madre e una figlia. Si va a fondo in un rapporto tanto
complesso quanto difficile. È inevitabile, infatti, che le due donne, a un
certo punto della vita, si rispecchino l’una nell’altra ed emergano differenze,
dolorose lacerazioni, incomprensioni. È in quella distanza che ogni lettrice
può riconoscere sé stessa in quanto figlia.
Ma perché, mamma, se la vita è così brutta hai fatto dei figli? Non sarebbe stato più semplice rimanere soli? Ho capito anche questo. Tu non volevi accudire qualcuno, tu volevi qualcuno che ti rendesse felice, magari a tua immagine e somiglianza. (…) Tutto ti è sfuggito di mano quando ho smesso di essere un fagotto divertente, quando ho cominciato ad avere opinioni, quando queste erano in contrasto con le tue…
Un ultimo capitolo, un ultimo monologo. Nel capitolo 4 si ha
l’impressione che a parlare sia proprio l’autrice, Camilla. E come altre donne
scrittrici prima di lei (penso a Oriana Fallaci, o Linda Lê) si rivolge a quel
figlio (o, meglio, figlia) che non ha avuto. Una maternità sfiorata, appena
abbozzata, la cui non prosecuzione diviene la forma di un rimpianto. Un
rimpianto privo di amarezza, ma che arriva a toccare corde talmente intime da
provocare vibrazioni profonde.
La sua lettera a Giulia, la figlia immaginaria, è il
ritratto di una donna che riflette sulle occasioni mancate.
Ciao Giulia,
purtroppo non ci sei più.
Accade spesso con i desideri, arrivano impetuosi, come tuoni, poi scompaiono e rimane il vuoto. Un vuoto grande, più grande di quello lasciato da un sogno, perché un sogno continui a rincorrerlo. È un obiettivo da raggiungere, appartiene al cuore e al cervello. Un desiderio invece è qualcosa che spesso non sai di avere e giunge all’improvviso, ti scuote dentro, creandosi un accesso tra un caos di paure, ansie, felicità.
Leggendo “Interruzioni” mi sono sentita in pericolo. Mi sono
sentita scoperta, esposta, osservata. Mai giudicata. Ma, attraverso le sue
pagine, mi sono anche compresa. Perché io sono le quattro protagoniste di
“Interruzioni”; io sono una donna che ha paura di mettere al mondo un figlio
con il rischio di trasferirgli le mie incertezze, le mie paure. Io sono una
donna che ha il terrore di accantonare sé stessa per occuparsi di un altro
essere umano, che teme di non riuscire a ritrovarla, la propria identità, nel
momento in cui corpo, mente e pensiero sono costretti dalla Natura ad agire
solo ed esclusivamente in funzione di un altro. Ma io sono anche una figlia con
rimpianti e consapevolezze nuove, segrete, impossibili da confessare a una
madre che, inevitabilmente, ti guarda con occhi filtrati dalle lenti delle
proprie aspettative. E, soprattutto, sono una donna che teme di non riuscire a
dar forma a un desiderio atavico, inscritto nel dna di ogni essere umano e
nella biologia di ogni donna, anche di quelle che per ragioni proprie o del
destino non concepiranno mai. Io sono tutte loro perché esse sono frammenti
inscindibili di ogni donna moderna, sono simboli contemporanei, spietati e
veritieri, della condizione femminile.
Sullo stesso argomento, puoi leggere la recensione a "Lettera al figlio che non avrò" di Linda Lê.
Barbara Merendoni
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