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Soccorso ad un lettore in crisi d’identità, ovvero sul pluripremiato “La teologia del cinghiale”

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La teologia del cinghiale
di Gesuino Némus
Elliot, 2015

pp 238
€ 17,50 (cartaceo)



Qualcuno – diamogli, come si fa con le vittime di odiose ingiustizie, un nome casuale: Tore – nel ricevere la notizia che nel 2016 un libro di un sardo, ambientato nell’isola, che parla di omicidi, banditi, enogastronomia tradizionale avesse vinto il Premio Opera prima al Campiello e il Premio Selezione Bancarella, sarebbe stato colpito da un serio sussulto gastrico. Se a questi dati si aggiungesse che il libro ammicca ad alcuni stilemi televisivi nei rapporti tra carabinieri e parroco, e riprende lo stereotipo della mentalità sarda incomprensibile agli occhi dello straniero, quel qualcuno di nome Tore sarebbe stato preda di irrefrenabili convulsioni da stizza. Si sente perciò la necessità di andare in soccorso al malcapitato: La teologia del cinghiale non è poi così un brutto libro. Ma perché?

Per prima cosa l’opera del tardivo esordio di Matteo Locci (1958), in arte Gesuino Némus, non risulta un libro falso o costruito: regge – dove più e dove meno – nello svolgimento del filo narrativo come nello stile, né corrivo né artificioso. Certo, la natura descritta, pur discostandosi da quella deleddiana minacciosamente incombente, è piuttosto simile ad una cartolina o forse all’Eden perduto, e questo non è proprio originalissimo. Però si potrà rincuorare subito il Tore tutto tremante che non è la solita storia di banditismo e vendette: siamo alla fine degli anni Sessanta e a Telévras, piccolo villaggio dell’Ogliastra, vengono uccisi fuorilegge ma non nel solito modo, muore una donna e scompare un bambino. Niente, neanche così il povero Tore si rassicura: la trama lo turba. Bisognerà dire allora che la voce narrante è l’elemento forte di questo libro: chi racconta è Gesuino Némus, bambino “mezzo matto”, ora adulto, testimone muto di tutti gli eventi dell’epoca. A causa della semi-follia e della scomparsa del suo migliore amico l’uso della lingua è magmatico e inconsueto, con frequenti cambi di punto di vista. Tra le righe de La teologia si incontrano anche parole ed espressioni in sardo, simili più a un Camilleri illuminato che al turgidissimo e quasi priapesco Niffoi, giustificate, non bisogna nasconderlo, anche dal voler mettere colore, ma soprattutto da un’innegabile necessità mimetica. L’opera ha uno svolgimento frammentato, divagante come nei romanzi umoristici classici (pur non essendo un libro inseribile nel genere). La ricerca della verità, inoltre, non è demandata all’indagine ufficiale, ma piuttosto frutto di un percorso interiore e memoriale filtrato da elementi soggettivi del narratore. Forse adesso Tore riuscirà a trovare un minimo di quiete.
Tranquillità che in parte si può incoraggiare: La teologia del cinghiale non è solo intrattenimento, è qualcosa di più, ma di certo stenta ad arrivare a picchi pienamente letterari. Una buona via di mezzo che unisce straniamento e buon uso della lingua a temi consueti, ma che manca di un’idea di mondo che apra nuovi orizzonti o che faccia percepire la realtà in modo differente. D’altronde la Sardegna non urbana e in particolar modo quella interna, è uno dei topos letterari più forti da scalfire: o selvaggia e turbolenta oppure luogo incontaminato, solo sfiorato dalla modernità, dove ritrovare un’umanità tanto genuina quanto dura, e non si tralascerà ovviamente la fusione tra i due stereotipi. Gesuino Némus fatica ad uscire da questo oppressivo soffitto di parole: gli ingredienti tipici sono fusi in maniera stuzzicante e anche inconsueta, e il gusto dell’opera è molto gradevole, ma l’agriturismo dov’è servito è simile a tanti altri pieno com’è di oggetti kitsch e ostentatamente locali.