di Andrea Piva
Giunti, 2017
pp. 366
€ 16
"Per diventare ricchi, si doveva iniziare con lo spendere da ricchi".
Con questa idea Vittorio Ferragamo, sceneggiatore cinematografico caduto in disgrazia, decide di tentare il tutto per tutto: con i pochi soldi rimasti, vivrà a Roma al di sopra delle sue possibilità - e la ricchezza verrà da sé.
"E se qualcuno nella mia testa sosteneva il contrario, perchè a dire il vero qualcuno che sosteneva il contrario nella mia testa c'era, quello era solo un disfattista, una stupida ansiosa formichina nemica del progresso".
Va tutto avanti così, questo - bellissimo - romanzo: con i pensieri altalenanti del protagonista, intorno a quella che potrebbe essere l'impresa del secolo, oppure la più solenne sciocchezza mai tentata: provare a rientrare nel giro delle celeb semplicemente frequentandone gli ambienti, a diventare ricco comportandosi come tale. In realtà le cose prendono una piega ben diversa da quello che Vittorio si aspetta: non lo scintillante mondo del cinema lo attende, ma uno studio polveroso, un vecchio senatore solitario e il suo amico bipolare, che gli sveleranno i segreti del poker americano. A portare Vittorio al tavolo da gioco è una complessa combinazione di eventi e incontri, unita a un bagno di realtà e a una buona dose di fortuna. La prima gli impone di constatare che il ricco e falso mondo del cinema
non perdona, smontandogli tutte le sue convinzioni sul fatto che uno
"bravo come lui" una strada la troverà per forza. La seconda, invece, lo
pone davanti alla sua reale abilità: giocare a carte. Il gioco d'azzardo si rivela una miniera per lo squattrinato sceneggiatore.
Ma sarà stata davvero la Fortuna a fargli fare gli incontri ingiusti, a farlo vincere e perdere al poker? O non sarà che tutti questi eventi sono la sola, logica conseguenza delle scelte del protagonista? Per tutto il romanzo il dubbio rimane, instillato dallo stesso Vittorio, che pone il lettore davanti a un bivio: credere alla casualità delle cose, o piuttosto ammettere che, come nel Texas Hold'em, anche nella vita c'è una legge, una probabilità sovrana, per cui tutto ciò che accade è la fine più lineare cui conducono i nostri atteggiamenti.
Insieme alla legge che governa il poker, anche Vittorio si svela nel corso del romanzo: non animale sociale, ma animale notturno - perché è di notte che gioca ai lunghissimi tornei -, finalmente solo, in una Roma in cui non c'è posto per i falsi del cinema, e nemmeno per una certa compagnia di giocatori d'azzardo col sangue agli occhi, disposti "a spingersi oltre il limite della decenza" e a "raccattare gli spicci da terra" pur di spillare quattrini a poveracci in seria difficoltà. Non tace, l'autore, del lato oscuro del gioco, di chi punta alle carte le rate dell'auto e i soldi del mutuo (e di chi accetta questi soldi in pagamento); lo stesso Vittorio in una sola notte di follia si gioca dieci anni di stipendio del padre. Ma per altri, come il senatore e il suo amico, è una ragione di vita, una sfida.
Ma non fermiamoci al solo poker: al di là di questo tema (che un giocatore avrebbe potuto apprezzare più di me), è lo stile a caratterizzare questo romanzo. Una serie fittissima di aggettivi e avverbi che portano il lettore dentro i pensieri di Vittorio, "macchina celibe predisposta a girare a vuoto per sempre intorno alla propria vacua complessità", così complesso da essere reale, vero. E altrettanto reali sono i personaggi che incontra: da Gianenrico Tozzi, "in tutta evidenza il tipo di miliardario che fa il pezzente per darsi un tono" e si diletta a fare il fiorista a tempo perso, al senatore, circondato invece di una "ricchezza antica, quella anche un po' scassata del nobile passatista con gli ancestori dagli occhi storti alle pareti e gli angoli rosicchiati dall'usura, quella che mi fa mettere istintivamente la lingua al plurale maiestatico". In tutto questo s'affaccia Roma, bellissima e decadente, splendente di storia e misteriosa quando la vedi da turista, rosa dai topi e da una squallida vita notturna quando ci vivi.
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