Cosima
di Grazia Deledda
a cura di Giovanna Cerina
Ilisso, 2005
pp. 143
cartaceo: 11, 00 euro
e-book: 4,90 euro
Dopo mesi di recensioni dedicate all’opera omnia di Grazia Deledda all’interno di una rubrica ambiziosa come #paginedigrazia, concepita appositamente in occasione del duplice anniversario deleddiano del 2016, scrivere di Cosima, ovvero dell’autobiografia romanzata dell’autrice Premio Nobel, si rivela forse il compito più complesso. In che modo commentare questo ultimissimo lavoro, ritrovato dagli eredi e pubblicato postumo, dapprima a puntate su «La Nuova Antologia» (dal 16 settembre al 16 ottobre 1936) e poi in volume autonomo dall’editore Treves (1937)? Non che la Deledda non abbia disseminato più e più volte indizi di vita vissuta tra le righe della sua vastissima produzione; al contrario. La stessa critica di matrice biografica si è anzi per sua natura e proprio per questo prodigata a rintracciare assonanze e consonanze tra verità e fantasia, tra realtà e invenzione. E tuttavia, nonostante ciò e nonostante l’artificio letterario su cui il tutto si regge, Cosima riesce a incutere sempre un certo rispettoso pudore, come se ancora ci chiedesse di essere letto più in confidenza, oltre la curiosità per il mero retroscena, alla scoperta di significati meno referenziali, più simbolici e sempre attuali.
L’edizione Ilisso – risalente a dodici anni or sono, curata da Giovanna Cerina e basata sull’autografo originale emendato da interventi di edizioni precedenti – apre al lettore e all’estimatore della Deledda le porte della sua dimora natale (l’attuale Casa Museo), e lo invita a entrare per riservargli le cure dovute all’ospito desiderato e gradito. All’interno di quella costruzione su più piani, nel cuore del quartiere nuorese di San Pietro, conoscerà la storia di una bambina intelligente e curiosissima di tutto, alla perenne esplorazione di ciò che la circonda, capace di trovare o inventare mondi anche tra le mura domestiche; di una giovinetta alle prese con il bello e il brutto dell’esistenza, con le gioie e i dolori che questa poteva riservare a lei e a una famiglia numerosa come la sua, «un po’ paesana, un po’ borghese», alla fine dell’Ottocento; una fanciulla sempre intenta a un peculiarissimo ascolto di storie pubbliche e private, animata da una pulsione spontanea alla rielaborazione letteraria che più in là nei decenni, a metà degli anni Venti, le sarebbe valsa l’assegnazione del Premio Nobel.
Narrata in terza persona, con uno stile ormai maturo e con una focalizzazione peculiare, che ben si presta a tratteggiare i vari personaggi e a restituire il contesto di una Sardegna in divenire e prossima all’avvento del “secolo breve”, la storia di Cosima ha il suo fulcro nell’ambizione atipica della sua protagonista, scrittrice in erba immortalata in una descrizione celebre e spesso citata:
«durante l’infanzia aveva avuto le malattie comuni a tutti i bambini, ma adesso era, sebbene gracile e magra, sana e relativamente agile e forte. Piccola di statura, con la testa piuttosto grossa, le estremità minuscole, con tutte le caratteristiche fisiche sedentarie delle donne della sua razza, forse d’origine libica, con lo stesso profilo un po’ camuso, i denti selvaggi e il labbro superiore molto allungato: aveva però una carnagione bianca e vellutata, bellissimi capelli neri lievemente ondulati e gli occhi grandi, a mandorla, di un nero dorato e a volte verdognolo, con la grande pupilla appunto delle donne di razza camitica, che un poeta latino chiamò “doppia pupilla” di un fascino passionale irresistibile».
Quanto è ancora “contemporanea” la storia di Cosima? Possiamo affermare che le resistenze ideologiche e culturali nei confronti delle donne che scrivono siano ovunque venute meno? E quanto sono ancora attuali, quanto ancora ci riguardano, le stigma di un certo quale pregiudizio rispetto agli spiriti ambiziosi e la tendenza a un ridimensionamento di progetti e prospettive di vita non convenzionali? Se solo Cosima avesse aspirato a un avvenire modesto, in tutto simile a quello desiderato dalle sue coetanee, la sua vita (pur virtuosa) non sarebbe stata certo così esemplare:
«quella ragazzina di quattordici anni che ne dimostrava meno e sembrava selvaggia e timida come una cerbiatta bambina, era invece una specie di ribelle a tutte le abitudini, le tradizioni, gli usi della famiglia e della razza, poiché s’era messa a scrivere versi e novelle, e tutti cominciarono a guardarla con una certa stupita diffidenza, se non pure a sbeffeggiarla e prevedere per lei quasi un losco avvenire».
La bellezza di questo personaggio, tuttavia, non dipende solo dall’incomprensione e dalla solitudine del suo genio. Il suo quid straordinario si rivela forse al meglio nella capacità di percepire intensamente il prossimo, e in un’incredibile forza d’animo che non solo non la fa ammattire in seguito alle ripetute tragedie familiari (la morte del padre, la deriva esistenziale di entrambi i fratelli, il rinvenimento del cadavere di una sorella vittima di aborto...), ma anzi la fa reagire con un’ostinazione stravagante e soave nella direzione salvifica dell’arte. In Cosima che consuma libri e giornali, e che, come ricorda Giovanna Cerina nella sua Prefazione, non coltiva altro che il suo desiderio “di volo”, c’è la bellezza di una passione sincera che mette insieme una vaghezza futura di cose “egregie” e la certezza presente di un’alterità rispetto al proprio contesto:
«quando […] poteva aver fra le mani una rivista illustrata, ne studiava a lungo le figure, specialmente le riproduzioni fotografiche di strade, monumenti, palazzi di grandi città. Roma era la sua meta: lo sentiva. Non sapeva ancora come sarebbe riuscita ad andarci: non c’era nessuna speranza, nessuna probabilità: non l’illusione di un matrimonio che l’avrebbe condotta laggiù: eppure sentiva che ci sarebbe andata. Ma non era ambizione mondana, la sua, non pensava a Roma per i suoi splendori: era una specie di città veramente santa, la Gerusalemme dell’arte, il luogo dove si è più vicini a Dio, e alla gloria».
Cosima è maestra di carta e calamaio come altre di ago e filo, e mentre le sue coetanee ricamano corredi
«ella scrive: piegata sul suo scartafaccio […] ella si slancia nel mondo delle sue fantasie, e scrive, scrive, per un bisogno fisico, come altre adolescenti corrono per i viali dei giardini, o vanno a un luogo loro proibito; se possono, a un convegno d’amore».
Invano si preoccupa la madre per questa figlia stramba, che pare quasi si diletti a stuzzicare i concittadini costruendo ad hoc un’immagine di sé bizzarra perfetta per il più perfido pettegolezzo:
«quella, poi, ha certe idee in testa. Tutte quelle scritture, quei cattivi libri, quelle lettere che riceve […] La gente mormora. Cosima non troverà mai da maritarsi cristianamente: e anche le sorelle ne risentiranno, perché in una famiglia tutto sta a sposare bene la primogenita».
Ciò che le sfugge – e non può che sfuggirle – è che Cosima ha già sublimato altrimenti la sua idea delle nozze: il solo buon partito che le interessa è la sua Musa; la sua dote è il suo talento, insieme con il suo patrimonio di storie e personaggi; e la sua prole, la sua discendenza destinata a non estinguersi mai, sta tutta nelle sue scritture, in quelle sue "pagine sorelle" ancora oggi lette, tradotte e studiate in tutto il mondo.
Cecilia Mariani
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