L’attività editoriale di
Vanni Santoni comprende dei progetti di successo, sia in qualità di editor che
in qualità di autore. Ha pubblicato con Laterza, Mondadori, Feltrinelli e
minimum fax; dirige la collana di narrativa della casa editrice Tunué e ha
fondato Scrittura Industriale Collettiva, il progetto che ha portato alla
pubblicazione di In territorio
nemico (minimum fax 2013), scritto da un collettivo di 230 autori
da lui coordinato. Con il suo ultimo libro, La stanza profonda, la
casa editrice Laterza partecipa per la prima volta al premio Strega.
L’ho incontrato per saperne
di più sulla sua attività di scrittore e sulla Stanza profonda, ma
anche di quella di “editor sterminato” alla Tunué, quando è alle prese con i
libri degli altri o quando insegna alla Scuola del libro. Alla base di tutta la
sua esperienza, però, non possono che esserci le sue letture, e qui ne ha
sciorinate un bel po’.
Presentando La stanza profonda, hai
detto che il progetto del libro è venuto fuori in maniera naturale dopo aver
lavorato a Muro di casse (Laterza, 2015), raccontaci questo
percorso.
Nonostante io abbia un’esperienza diretta da
giocatore di ruolo, La stanza profonda sgorga direttamente
da Muro di casse, sia per la forma che in senso editoriale
perché, mentre il Muro andava molto bene, Anna Gialluca,
direttrice editoriale di Laterza, mi disse di cominciare a pensare a un altro
libro e mi venne subito in mente di proporne uno sui giochi di ruolo. Lei
rimase forse un po’ interdetta perché si aspettava qualcosa di vicino ai rave e
apparentemente i giochi di ruolo ne sono lontanissimi: quella della free tekno
è una sottocultura giovanile molto estroversa, si tratta di ballare per giorni,
di organizzare grandi baccanali; d’altra parte, nei giochi di ruolo si tratta
di chiudersi in una cantina a tirare dadi e raccontarsi storie. Però ho sentito
subito che questi due mondi in realtà avevano punti in comune forti e poco
raccontati: il proporre una forma di intrattenimento che metteva in discussione
gli stili di vita dominanti, nel suo essere non competitiva e non commerciale,
e nell’avere in entrambi i casi una forte componente visionaria – l’obiettivo
era, in entrambi i casi, quello di creare mondi altri, non importa se con
musica ritmata e psichedelici o mappe, dadi e matite. Tutto questo le rendeva
di fatto avanguardie. Si trattava di una carica che poi si è anche in parte
esaurita perché le controculture rimangono tali solo per alcuni anni, in
seguito il loro impatto eversivo sulla realtà tende a calare e diventano
sottoculture quando cominciano a sviluppare un loro codice autoreferenziale,
che progressivamente riduce la loro possibilità di impatto. Entrambe
queste sottoculture, però, avevano avuto un momento controculturale notevole e
ricevuto in risposta uno stigma sociale forte: realizzato ciò, ho pensato che
un romanzo sui giochi di ruolo potesse essere una buona idea per formare un
dittico con Muro di casse.
Dopo aver fatto un po’ di ricerche ho visto che,
a fronte di molti saggi, che peraltro ho utilizzato per le ricerche relative al
romanzo, nessuno aveva mai scritto un romanzo sui giocatori di ruolo, se si
eccettua un libro terribile, Mazes and Monster di Rona Jaffe,
un instant book scritto per speculare sulla morte di un ragazzo che i media
attribuivano al suo essere un giocatore di ruolo, e che esacerbava una notizia
poi rivelatasi falsa.
La stanza profonda è nato quando ho trovato l’altro tema
importante del romanzo, quello della provincia; qualcuno ha detto che l’Italia
è tutta provincia, e oggi molti dei paesi e delle piccole città che la formano,
con la fine del mondo rurale e di quello industriale, e la conseguente
postindustrializzazione, hanno perso di senso e non hanno saputo reinventarsi.
Trovavo interessante il contrasto tra un’attività fortemente creativa, di vera
e propria creazione di senso, ma fatta in gruppi chiusi – il
chi frutto quindi non si vede mai, lo esperisce solo chi sta giocando –, e il
fatto che il mondo fuori si dissipasse e il senso non lo trovasse più.
Qual è stata la difficoltà maggiore di scrivere
un romanzo che ha anche una vena saggistica?
In realtà la difficoltà maggiore l’ho affrontata
nella parte romanzesca, perché sulla natura ibrida avevo già lavorato con Muro
di casse e quindi mi ero formato in tal senso; naturalmente per
scrivere due libri di questo tipo, benché avessi un’esperienza ventennale sia
da raver che da giocatore di ruolo, il primo passo è uno studio bibliografico
significativo. Sono state anche le uniche occasioni in cui mi sia capitato di
leggere e-book, per averli subito, senza aspettare di attendere che arrivassero
i libri. Per Muro di casse ho scaricato molti saggi francesi e
inglesi (ma c’era già anche un ottimo testo italiano: Free Party di
Francesco Macarone Palmieri, uscito nel 2002 per Meltemi) e la stessa cosa ho
fatto per La stanza profonda: ho scaricato e letto tutta la
saggistica esistente sui giochi di ruolo e ho creato un primo dossier
concettuale. Poi ho lasciato partire in modo libero la narrazione. Con Muro
di casse avevo incontrato diverse difficoltà in quella fase iniziale,
era la prima volta che tentavo qualcosa del genere e mi ero dovuto confrontare
con questioni non banali, anzitutto su come inserire gli elementi saggistici
senza che la parte narrativa perda di forza, e infatti la soluzione è molto
strutturata, il romanzo è costruito in tre parti, di cui quella centrale è
nuovamente divisa in tre: la prima è narrativa, la seconda è una sorta di
dialogo platonico, spezzato a sua volta da due inserti narrativi, e poi
troviamo ancora una parte narrativa.
Quanto alla Stanza profonda, il
problema è stato inverso: come dare forza al romanzo. Infatti, mentre la storia
dei free party era estremamente avventurosa, ricca di episodi di spedizioni
incredibili in paesi lontani a organizzare assurdi baccanali nei luoghi più
improbabili, nei giochi di ruolo tutto è immaginario: se li guardi dall’esterno
vedi solo dei gruppetti attorno a dei tavoli, qualcosa di
decisamente poco “romanzesco”, quindi bisognava mettere molto più in campo i
personaggi, farli agire e pensare, non potevano essere solo testimoni come sono
Iacopo Cleo e Viridiana in Muro di casse; bisognava descrivere
in modo più dettagliato i caratteri dei componenti il gruppo dei giocatori, per
poi permettergli di avere forza narrativa.
Come sei arrivato alla scelta di usare il
tu?
La prima volta che ho visto usare la seconda
persona in un modo che mi ha colpito davvero è stato leggendo un libro di Junot
Díaz che si chiama This is how you lose her, che usa il “tu” sin
dal titolo. È formato una serie di racconti collegati fra loro che parlano, di
fatto, delle avventure erotiche del suo alter ego; l’autore doveva aver intuito
che negli anni dieci un tizio che si sta bullando di aver fatto sesso a destra
e a sinistra, se usa la prima persona può risultare respingente, se non
addirittura sessista; quindi astutamente utilizza il tu per chiamarsi fuori e
metterti al centro – e il risultato è in effetti molto divertente. Ho usato la
seconda persona per la prima volta in Muro di casse, nel prologo,
perché volevo evitare che il libro sembrasse subito un memoir;
siccome quella dei rave è stata un’esperienza collettiva che ha riguardato
diverse centinaia di migliaia di europei, usare la prima persona mi sembrava
riduttivo (peraltro leggendo sarebbe stato comunque chiaro che molte cose
raccontate le avevo realmente vissute), così ho scelto il tu per il prologo,
anche se poi in realtà il libro decolla con la prima persona, essendo
strutturato come tre memoir finzionali. Quando mi sono messo
a scrivere La stanza profonda, forte di quella esperienza, ho
cominciato a usare da subito il tu; mentre lavoravo mi sono reso conto che è la
persona dei giochi di ruolo. Il dungeon master, infatti, parlando ai giocatori,
dichiara cosa vedono in un determinato contesto usando il “voi”, e quando un
giocatore è da solo il master si rivolge a lui col tu, dicendo cose tipo “sei
in una cella, senti un rumore da est…”, eccetera. Ho capito quindi che quella
era la giusta strada, dato che favoriva un incontro tra forma e contenuto, e
l’ho utilizzata fino in fondo.
In che modo il fatto che tu abbia giocato come
master ha influito sul tuo essere editor, nel lavorare alle storie degli
altri?
Pochi giorni fa a un festival mi è stato chiesto
in che modo il mio essere stato un dungeon master per anni abbia influito sul
mio essere scrittore. Ho risposto che non aveva influito molto: quando mi sono
trovato a scrivere dei fantasy come i due Terra ignota, tutti
pensavano che avrei usato il materiale testato nelle mie campagne, ma non è
stato così; era come se fossero due medium diversi e quindi incompatibili.
Anche se ovviamente scrivere campagne può essere una buona palestra di
progettazione di ambientazioni e personaggi, ciò che funziona in un gioco di
ruolo non funziona necessariamente in un romanzo, e viceversa. Un ragazzo del
pubblico – era il festival Calibro, che ha il pubblico più competente che abbia
mai visto – mi ha subito corretto dicendomi che non era vero, perché il
progetto di Scrittura Industriale Collettiva, da cui è nato il romanzo In
territorio nemico viene dai giochi di ruolo. Nel metodo SIC, in
effetti, la scrittura è gestita da compositori con un grande potere
decisionale, che però non possono scrivere, mentre chi scrive non può prendere
decisioni: è un rapporto molto simile a quello del master e del giocatore. Ed è
vero anche che venni chiamato da Tunué grazie a quest’esperienza: non avevo
fatto mai l’editor se non a livello informale, per amici e colleghi, ma quella
è stata una scuola enorme perché la composizione dei testi SIC include sempre
l’editing: il compositore che utilizzi il metodo SIC prende cinque o sei brani
sullo stesso tema scritti da altrettanti autori, sceglie le parti migliori, le
mette insieme e dopo, necessariamente, riedita per dare omogeneità. C’è
un’influenza di secondo grado dei giochi di ruolo nella mia scrittura, quindi,
però il buon dungeon master non è necessariamente un buono scrittore: entrambi
scrivono, ma il medium è diverso.
Cosa stai leggendo?
Sto rileggendo Dickens, perché ho letto un
saggio divertentissimo di Robert Walser nel suo Ritratti di scrittori,
in cui descrive il suo essersi immerso per tre mesi esclusivamente in Dickens e
fa tutta una tirata “legga Dickens, legga Dickens, signora, rilegga Dickens”
che ho trovato oltremodo divertente, così ho ripreso Oliver Twist e ci sono
letteralmente sprofondato; sto leggendo Il post esotismo in dieci
lezioni, lezione undicesima di Volodine perché avevo trovato molto
interessante Terminus radioso e quello è una sorta di suo
piccolo compendio. Poi sto leggendo The Yiddish Policemen’s Union,
di Michael Chabon, un grande scrittore americano che in Italia non ha avuto la
stessa visibilità che ha in patria; mi interessa perché ha un enorme dominio
della struttura, quindi è utile da leggere quando sei nella prima fase di un
romanzo, quando stai ancora costruendo. Un altro scrittore utilissimo quando si
scrive è Proust (che infatti ho anche adesso, come sempre, in rilettura) perché
al solo leggerlo ti migliora lo stile. Se me lo chiedi, trovo che autori come
Chabon lavorino troppo sulla meccanica e quindi perdono quella dimensione
istintiva che a volte è il fuoco della letteratura (se pensi ad Artaud,
figurati se ha mai progettato lo schema di un suo libro, eppure arriva in
luoghi che a Chabon sono preclusi); d’altro canto vedere un lavoro così
certosino su ogni singolo elemento, su ogni rapporto di causa ed effetto, è,
oltre che ammirevole, qualcosa che aiuta molto quando devi lavorare a tua volta
alla struttura di un testo lungo. Poi sto leggendo Viaggio in
Italia di Simone Weil, l’ho preso alla Libreria delle donne di
Firenze, una bellissima libreria indipendente che vende libri solo scritti,
appunto, da donne; insieme a quello ho preso L’anno del pensiero
magico di Joan Didion, altro libro importantissimo che mi mancava, ma
che ho smesso di leggere perché mi metteva su una certa tristezza, lo
riprenderò più in là. Sto anche leggendo Tabù di Giordano
Tedoldi, il suo nuovo romanzo che uscirà per noi di Tunué a giugno e di cui ho
appena terminato l’editing. Infine, sto leggendo un sacco di poesia francese,
perché quest’anno ho vissuto in Francia per vari mesi e ho saccheggiato le
librerie: Reverdy, Tristan Tzara, Louis Aragon, Paul Éluard, il grande Henri
Michaux, di cui sto leggendo anche le prose, come Lo spazio
interiore o Il signor Plume. Ho lavorato per tanti anni
sulla poesia in inglese e ora mi interessa approfondire un po’ quella francese,
sarebbe bello tra qualche anno arrivare a scrivere qualche riga non
completamente rivoltante.
Il prossimo mese, alla libreria La Cité di Firenze,
per la Scuola del libro terrai un corso di scrittura narrativa dal titolo
“Iniziare un libro (e finirne uno iniziato)”. Come lo imposterai?
Ho cominciato tre anni fa a fare corsi con la
Scuola del libro perché speravo, e spero, di trovare degli autori da
pubblicare. A essere sincero, sono stato sempre molto diffidente nei confronti
dei corsi di scrittura: mi sono formato su una rivista autoprodotta nata in
seno a esperienze di occupazione e autogestione, così ho sempre creduto, e
credo tuttora, che la letteratura sia una pratica radicale di cui devi
impossessarti anzitutto leggendo, leggendo e leggendo, così i miei sono
anzitutto corsi di lettura: do tantissima roba da leggere cercando di aiutare
le persone a strutturare le proprie letture, cioè a leggere di più, con più
attenzione, a leggere libri impegnativi in modo che possano essere utili a
quello che devono scrivere. Questa del leggere libri adatti ai propri obiettivi
di scrittura – beninteso dopo aver creato una base sufficiente – è una cosa importante,
che per anni non ho saputo, essendo stato un autodidatta: a scrivere i miei
libri sono arrivato a tentativi, brancolando in un buio che solo lentamente si
faceva (rada) luce. Mi ha colpito vedere che invece c’è chi lo capisce da
giovane, complimenti a lui: i due esordi più precisi – e per preciso intendo
il rapporto tra la scrittura, il piano del libro e il risultato finale – che ho
pubblicato nella collana che curo per Tunué sono Dettato di
Sergio Peter e Dalle rovine di Luciano Funetta, due romanzi
molto diversi ma accomunati dal fatto che, evidentemente, l’autore per anni ha
letto esattamente i libri che gli servivano per realizzare il suo. Ecco, questa
è una capacità che alla loro età non avevo, che ho imparato faticosamente, e
che ora cerco di trasmettere ai miei studenti per risparmiare loro un po’ della
fatica che ho fatto io.
L’altra cosa che cerco di insegnare è la
disciplina: la scrittura è un’attività totalizzante e soltanto
sacrificando tutto puoi ottenere dei risultati; il fatto che esistano
anche persone che ottengono dei risultati senza sacrificare tutto non ci
riguarda, buon per loro, per noi comuni mortali non è così. Bisogna quindi
scrivere tutti i giorni, perché solo in questo modo si attivano dei processi
particolari, su tutto il pensare al romanzo in modo strutturato anche quando si
sta facendo altro, che se scrivi occasionalmente non si attivano proprio.
Stabilite queste premesse, si fa molto lavoro sui testi degli studenti. Se mai
ho una virtù, potrebbe essere quella di essere un lettore veloce, vedo
rapidamente cosa manca a un testo, così posso editare e commentare in diretta:
invito gli studenti a portare un loro testo o a crearlo via via che il corso va
avanti. Non ti dico, né dico agli studenti, che i consigli che do sono per
forza giusti, anzi come approccio di base li invito a contestarli, però trovo
che lavorando in questo modo si abitua chi scrive a capire che su qualunque
testo ci sono più possibili punti di vista e più possibili direzioni di
miglioramento – e questo tipo di riflessione sul materiale testuale è una delle
cose che fanno crescere davvero un autore.
Sulle tecniche, invece, sto al minimo
semplicemente perché non credo nelle tecniche: credo che insegnare come si fa
un incipit o come si sviluppa un personaggio di un certo tipo sarebbe quasi una
fregatura, perché non è detto che tu abbia bisogno di quella determinata cosa
fatta in quel determinato modo per il libro che stai scrivendo in questo
momento. I libri sono tanto diversi quanto sono diversi gli autori, non esiste
nessun tipo di ricetta in alcun caso, anzi la cosa bella delle arti è che ogni
tanto arriva qualcuno che ribalta tutto e poi si scopre che aveva ragione lui.
Impartendo ricette rischi di creare dei frame che condizionano negativamente un
autore che deve ancora trovarsi e sbocciare. Si tratta allora molto più di dare
una spinta a lavorare seriamente e assumere un atteggiamento ricettivo; poi le
tecniche giuste si impareranno leggendo, perché la verità è che quando lavori
un testo sei seduto, sempre, su una ziggurat infinita di libri: il vero lavoro
dello scrittore è trovare anche una relazione col canone, cioè formarsi e poi
capire anche, tra i tanti filoni che ci sono, qual è quello a cui tu devi
collegare le tue vene o il tuo apparato respiratorio per alimentare la tua
scrittura.
Intervista a cura di Lorena
Bruno
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